mercoledì 25 aprile 2018

Viva Bartok !


 
BERLINO - A dieci anni era “impazzito per Bela Bartok”. E quando tornava da scuola, con un gessetto preso in classe, scriveva sul muro di casa in via Fogazzaro: VIVA BARTOK. C’era la guerra, era il 1943, e i nazisti occupavano Milano. Meno di un secolo prima, i giovani patrioti risorgimentali avevano riempito i muri della citta’ con VIVA VERDI, uno slogan politico in barba agli scherani di Cecco Beppe. Che anche dietro Bartok ci fosse qualche messaggio d’ opposizione? La Gestapo lo penso’ subito, “e vennero dal portiere per chiedergli: ma chi lo ha scritto? E poi chi e’ questo Bartok, forse un partigiano?”. E invece Bartok era Bartok. Ma l’ ardore musicale del bambino era rischioso lo stesso, “perche’ in quel periodo mia madre aiutava veramente i partigiani, aveva aiutato a scappare Sergio Solmi, il poeta, abbiamo nascosto anche il figlio di amici ebrei che si erano rifugiati in Svizzera, e noi dovevamo dire a tutti che era nostro cugino; venne arrestata per questo e si salvo’ solo perche’ aveva incontrato un tenente delle SS italiane che era stato allievo di suo padre, Guglielmo Savagnone, il mio nonno siciliano”. Un avo con la corda pazza questo Nonno Guglielmo, “un personaggio straordinario”. Quella cattedra all’ Universita’ di Palermo se l’ era dovuta conquistare fuori d’ Italia: “Non ricordo se alla fine del liceo o all’ inizio dell’ universita’ , di sicuro aveva preso a schiaffi un professore ed era stato cacciato da tutte le scuole del Regno. Cosi’ aveva studiato in Germania, a Lipsia, si era laureato diventando un grandissimo esperto di papirologia ed era tornato a Palermo a insegnare”. Ma questo, Claudio Abbado, lo ha scoperto dopo, e il suo lungo viaggio verso la cultura tedesca e’ stato in realta’ “un ritorno”. Un giorno con Abbado nel tempio dei Berliner Philharmoniker. Il giorno dopo un nuovo trionfo con la versione concertata dell’ “Otello” verdiano, prima tappa dello Shakespeare Zyklus che dominera’ la “Szene” berlinese fino a giugno. Sono passati sei anni esatti da quando i maestri dell’ orchestra piu’ democratica del mondo hanno scelto Claudio Abbado come successore di Herbert von Karajan.
Per lui, cresciuto nel mito di Wilhelm Furtwaengler, la materializzazione di un sogno. “Il momento piu’ commovente di questi anni, ammette semplicemente, me lo ha regalato Elisabeth, la vedova di Furtwaengler. Aveva ascoltato un nostro concerto a Lucerna e sapeva che dovevamo suonare a Ginevra, cosi’ mi ha scritto una lettera: “...Come successore di mio marito, la invito ad abitare a casa mia”. Ecco, per me questa frase e’ stata straordinaria, essere il successore di Furtwaengler”.
(...) Lasciamo i Berliner. Di Claudio Abbado si dice fra l’ altro che non lavora volentieri in Italia. “Questa e’ una leggenda, io lavoro moltissimo in Italia. Sono stato a Reggio Emilia ancora in ottobre e novembre con i giovani della Mahler Jugend Orchestra. Abbiamo provato pezzi di Schoenberg, i Caminantes di Nono: grandi messaggi per la pace. Lei mi chiedera’ perche’ Reggio Emilia o Ferrara, ma perche’ li’ come in altre citta’ dell’ Emilia si varano iniziative che vengono copiate in tutto il mondo”. Che il cuore di Claudio Abbado batta a sinistra non e’ questo omaggio all’ Emilia rossa a rivelarcelo. Ma lui bolla come “ridicole” le etichette: “Quando dico che la Regione Emilia fa delle cose straordinarie, per me conta zero il fatto che sia amministrata dalle sinistre”. E pero’ rifarebbe tutto, “come suonare nelle fabbriche, aprire la Scala agli studenti e ai lavoratori, cose che ho fatto perche’ le ritenevo giuste non perche’ fossero di destra o di sinistra. Quando protestavo contro la guerra del Vietnam insieme a Maurizio Pollini o contro i colonnelli greci, tutti facevano titoli sui musicisti rossi, pero’ quando protestai contro i carri sovietici a Praga esponendomi personalmente con Kubelik e con Daniel Barenboim, nessuno disse nulla perche’ non faceva comodo ne’ a sinistra ne’ a destra. Rifarei tutto. Faccio un altro esempio: io ho diretto molta musica di Luigi Nono, che considero un grandissimo compositore, eppure la reazione era sempre la stessa, Nono e’ comunista. Pensi che una volta a Vienna mi sono trovato un musicista dei Wiener il quale, alla fine della Settima di Bruckner, mi disse: “Meraviglioso, non mi sarei mai aspettato che un italiano di sinistra come lei potesse dirigere Bruckner in modo cosi’ profondo”, poi scoprii che ai tempi era stato un fervente nazista”. Il cuore dell’ attivita’ di Abbado rimane all’ estero, prima a Vienna ora a Berlino. Un “esilio” sufficiente a confrontare, a cercare di capire quale sia il “male oscuro” che sembra divorare la cultura in Italia: “La cultura rende ricco un Paese, anche economicamente. Non e’ vero che in Germania o in Austria si fa di piu’ per la cultura perche’ sono piu’ ricchi, e’ vero il contrario, sono piu’ ricchi perche’ si fa di piu’ per la cultura. Ricordo un esempio viennese al tempo del cancelliere Kreisky: si doveva decidere se costruire un pezzo di autostrada oppure se potenziare la nuova stagione operistica e teatrale. Scelsero Opera e Teatro, in Italia sarebbe avvenuto il contrario. Siamo un Paese ricchissimo, e invece di valorizzare le nostre potenzialita’ ci perdiamo in beghe provinciali, in contrapposizioni assurde tra Nord e Sud”.
Intervista con Claudio Abbado, Paolo Valentino Corriere della Sera del 12 dicembre 1995
 

Incubi e profezie, n.7 – Il mandarino di Bartok
Di fascisti, o sedicenti tali, ne ho messi a tacere parecchi, quando ancora si poteva parlare. In effetti, non è difficile: gli argomenti non mancano e sono sotto gli occhi di tutti, basta una normale cultura scolastica (una volta bastava: oggi, a dire il vero, non so più e ne dubito, perché loro stanno manipolando tutto, anche i nostri figli.) Per esempio: davanti ad una serie di vanterie, io rispondo che Mussolini è stato ladro e traditore della Patria, e che per di più era un cialtrone. L'interlocutore conosce già la mia posizione sulle prime due questioni (Matteotti e le sue denunce sulla corruzione dei fascisti, le leggi razziali del 1937 e la Repubblica di Salò che consegnarono l'Italia e gli italiani ad un paese straniero), e non insiste per non dover ascoltare; ma sulla terza si inalbera.
- Cialtrone! Come puoi dire una cosa del genere, come la giustifichi?
Eccetera. Ma il gioco è troppo facile: Mussolini fu davvero un cialtrone, per esempio perché ha sempre insistito sulla necessità di cambiare gli italiani e di farne un popolo guerriero, insistendo molto su questo punto e avendo vent'anni di tempo a disposizione; e, dopo vent'anni (una generazione intera da lui costruita) al momento di fare la guerra eravamo clamorosamente impreparati, e i nostri alpini furono mandati a combattere in Russia con le scarpe di cartone. Il colpo è duro, e il mio interlocutore tace; ma io so già che sarà per poco tempo, e che già domani riprenderà con i suoi discorsi, qui sul lavoro o altrove.
Tutto questo, unito ai discorsi di questi ultimi giorni, mi torna in mente riascoltando "Il Mandarino meraviglioso" di Béla Bartok. Un soggetto strano, per un balletto: una donna subisce un'aggressione da parte di un misterioso "mandarino", e pur essendo aiutata da tre altri uomini, non riesce a respingerne l'assalto. Alla fine, pur ferito e morente, il Mandarino riesce a ottenere ciò che vuole. Mi sono sempre chiesto cosa avesse trovato Bartok in questo soggetto, e purtroppo ho trovato la risposta. Loro sono come il mandarino meraviglioso del balletto di Bartok: non si fermano mai, qualsiasi cosa succeda. Sono sempre pronti a ripartire, come i morti viventi dei film del terrore, finché non hanno ottenuto quello che vogliono; e tenerli lontani è difficile, impegnativo. Ogni tanto, noi ci stanchiamo e abbassiamo la guardia: ma loro sono sempre lì. Non mollano mai, sono come una malattia grave e subdola, e purtroppo sono parte di noi stessi e della nostra società.
(Giuliano Bovo, dal blog http://deladelmur.blogspot.it )

 
(nelle foto sopra, Claudio Abbado alla guida dei Berliner Philharmoniker e Luciana Savignano nel "Mandarino meraviglioso" di Bartok, alla Scala negli anni '80)
 

giovedì 19 aprile 2018

Marilyn Horne


Ho ascoltato Marilyn Horne una sola volta, in concerto: era il giugno del 1981, alla Scala, e ancora oggi mi ricordo di quel suo "Iris, hence away" dalla Semele di Haendel (che non ho più ascoltato in seguito, è un'opera piuttosto rara) e di quei suoi recitativi scolpiti con potenza o con grazia, secondo ciò che richiede il momento. Marilyn Horne veniva spesso in Italia, ma di solito preferiva Venezia e La Fenice e per me era difficile conciliare i viaggi e le date con gli orari di lavoro; è una delle cose di cui sento il rimpianto, ma per noi che lavoravamo a turni in fabbrica ed eravamo appassionati di musica così andava (oggi penso che vada anche peggio, quantomeno io prendevo un salario sufficiente e avevo diritto alle ferie e ai riposi).
 

Marilyn Horne non ha certo bisogno di presentazioni, e in ogni caso io non sarei all'altezza di farle come si deve; basterà ricordare che è stata fra le artefici del "Rinascimento Rossiniano", e di tutto il repertorio per contralto dal Seicento fino alla metà dell'Ottocento; musica magnifica che però prima degli anni '60 (prima di Marilyn Horne, viene da dire) veniva eseguita in modo un po' impacciato, come se non si sapesse bene che cosa fare con quelle arie e con quei personaggi. Marilyn Horne ha aperto la strada a decine di cantanti brave o bravissime che l'hanno seguita in quel repertorio, ma devo purtroppo aggiungere che negli ultimi decenni è prevalsa troppo spesso la parte contraria, cioè di assegnare quelle parti a maschi che cantano in falsetto, quasi sempre con risultati sgradevoli (c'è a chi piace, lo so, ma dopo aver ascoltato Kathleen Ferrier e Marilyn Horne ascoltare un controtenore in "Erbarme dich, mein Gott" mi risulta ancora oggi davvero fastidioso, e anche un bel po' deprimente - non mi ci abituerò mai).

Marilyn Horne nasce come soprano e poi mezzosoprano, e nel 1954 è famosa la sua Carmen di Bizet al cinema, dove doppia l'attrice Dorothy Dandridge nel film "Carmen Jones" (grande successo di quegli anni). La svolta, e l'approdo alla vocalità più grave, arriva negli anni '60: quando ancora gran parte del repertorio di Rossini e di Haendel è poco eseguita. Le leggendarie interpretazioni rossiniane della Horne, accanto a Shirley Verrett o a Joan Sutherland, contribuiranno in modo decisivo ad imporre sui palcoscenici musica meravigliosa che fino ad allora era stata dimenticata; ed è un fenomeno che dura ancora oggi, e del quale dobbiamo esserle grate.
Al cinema, Marilyn Horne non ha mai interpretato ruoli da attrice; però la sua voce compare spesso nelle colonne sonore, ed i suoi inizi sono proprio come "doppiatrice" per le parti cantate di Dorothy Dandrige (Carmen Jones, 1954) e di Nancy Kwan (1961). In realtà, di solito si registra prima la parte cantata e poi le attrici cercano di adeguarsi al canto; il contrario sarebbe un bel po' difficile...
Nel dettaglio, da www.imdb.com, film e opere registrate in palcoscenico in cui appare Marilyn Horne:
-1954 "Carmen Jones", regia di Otto Preminger; la voce di Dorothy Dandridge nelle parti cantate è di una Marilyn Horne poco più che ventenne.
-1961 "Flower drum song" (Fior di loto), film con la regia di Henry Koster dove Marilyn Horne doppia nelle parti cantate l'attrice Nancy Kwan
- 1980 "Semiramide" di Rossini con Montserrat Caballé, dir. Yves Hubert
- 1981 "Tancredi" di Rossini, con Dalmacio Gonzales e Katia Ricciarelli, dir Pierre Desfons ?
- 1982 Concierto Barroco, un film del 1982 tratto da un libro di Alejo Carpentier, regia di Josè Montes-Baquer, dove insieme a Marilyn Horne e Lucia Valentini Terrani troviamo tra gli interpreti il tenore Alberto Cupido e il mezzosoprano Carmen Gonzales. Alejo Carpentier (1904-1980, cubano, nato a Losanna) fu anche musicista e appassionato di storia della musica; si parla di un incontro immaginario fra Antonio Vivaldi, Georg Friedrich Haendel e Domenico Scarlatti a Venezia, durante il Carnevale del 1709. Di più non so dire, è un film quasi introvabile.
- 1985 "Hommage à Rossini", registrazione di un concerto
- 1990 "Orlando Furioso" di Vivaldi, a San Francisco, dir. Randall Behr
1990 "Die Fledermaus" di Johann Strauss al Covent Garden, tra gli ospiti con Joan Sutherland e Luciano Pavarotti, dirige Richard Bonynge.
1992 "The ghost of Versailles", opera di John Corigliano al Metropolitan, dir. James Levine; Marilyn Horne interpreta il personaggio di Samila.
 

Per nostra fortuna, l'elenco non è del tutto completo: esistono molte altre registrazioni in immagini di Marilyn Horne e spero che qualcuno ne abbia fatto un catalogo dettagliato (imdb.com è un sito del quale non potrei fare a meno, ma si occupa prevalentemente di cinema).
(la vignetta qui sotto viene da Le Nouvel Observateur, anni '80; i colori per Lucky Luke e Saltapicchio sono di mio nipote Fabrizio - io sono lo zio -, inizio anni '90)

 

domenica 15 aprile 2018

Boychoir (2014)


Boychoir (L'ottava nota, Fuori dal coro - 2014). Regia di François Girard. Scritto da Ben Ripley. Fotografia di David Franco. Musica di Britten, Fauré, Haendel, ed altri. Musiche per il film di Brian Byrne. Interpreti: Garrett Wareing, Dustin Hoffman, Kathy Bates, Debra Winger, Josh Lucas, Eddie Izzard, e dai ragazzi di The American Boychoir School. Durata originale: 103 minuti.

- Non canterai mai più come prima. Quella voce, quel suono, in realtà non ti apparteneva. L'avevi presa in prestito, e poi hai dovuto lasciarla andare.
- Ma allora quale è il senso di tutto il lavoro e di tutte le lezioni che ho fatto?
- Le lezioni sono il senso. Il senso è nella lezione.
(il maestro giovane e il ragazzo, 1h27)
"Boychoir" è un film americano del 2014 diretto da François Girard, che aveva già al suo attivo un ottimo film sulla musica, "32 piccoli film su Glenn Gould", del 1997. "Boychoir", che in italiano ho trovato indicato con due titoli, "L'ottava nota" e "Fuori dal coro", è un film molto bello: non tanto per il soggetto, non nuovo e abbastanza prevedibile, ma per la sua realizzazione. E' recitato molto bene da tutti, con un Dustin Hoffmann al suo meglio, e ha la giusta delicatezza nel raccontare una storia non facile, quella di un dodicenne con un'infanzia drammatica ancora tutta da superare. Il superamento avviene tramite la musica, un percorso di formazione e di crescita aiutato dal grande talento vocale: un talento che però non può durare, bisogna cogliere l'occasione e il ragazzo troverà il maestro giusto per farlo. In "Boychoir", per dirla con Giuseppe Verdi, il regista Girard ha trovato la tinta giusta, e il risultato è eccellente. Oltretutto, le scelte musicali sono di alto livello ed è sempre bello ritrovare Britten, Fauré, Haendel.
Il regista Girard ha l'intelligenza di tagliare tutto ciò che è già stato visto e rivisto in occasione di film su un soggetto simile, cioè riduce al minimo indispensabile insulti, scazzottate, alcolismo, bullismo, la vita nel collegio, e in questo modo pone al centro del film la musica e la maturazione individuale del ragazzo, oltre a sottolineare i pensieri del maestro riguardo all'età e al suo fallimento personale di quando voleva diventare un pianista ma dovette cambiare strada perché gli mancava quello che invece il ragazzo ha, il talento.

Il soggetto è questo: il ragazzo protagonista, Stet, vive con la madre alcolizzata; ha dodici anni e suo padre è un uomo sposato che praticamente non lo ha mai visto. Quando la madre muore, il padre però si presenta e in qualche modo si prende cura di lui: venuto a sapere del talento musicale del ragazzo lo iscrive a un prestigioso collegio musicale dove c'è un coro di voci bianche che fa concerti in tutto il mondo. In questo modo, il padre "scarica" il figlio indesiderato e può continuare a tenere la sua famiglia all'oscuro di questa sua paternità. Al collegio non vorrebbero accettare il ragazzo, già troppo grande e prossimo al cambio della voce e inoltre ancora incapace di leggere la musica, ma un assegno cospicuo fa cambiare idea alla direttrice. Da qui in avanti il film diventa abbastanza prevedibile nel suo svolgimento, ma rimane sempre interessante in ogni sequenza e viene voglia di sapere come va avanti e come va a finire.
Sull'argomento esiste anche il film "Die Thomaner" un documentario del 2012 (cioè di poco precedente a "Boychoir", che è del 2014) sull'attività del grande coro di voci bianche tedesco "Thomanerchor" di Lipsia, "un anno nella vita" dei ragazzi del coro, con interviste e brani di concerto. Molti altri cori importanti esistono un po' in tutto il mondo, e sono molto richiesti perché per le voci bianche hanno scritto i più grandi compositori di tutti i tempi, anche nell'opera lirica.
 
Gli attori: il protagonista si chiama Garrett Wareing ed è molto bravo e molto credibile. Dustin Hoffman interpreta il maestro anziano, di grande prestigio internazionale, ed è una delle sue interpretazioni più belle. Molto brava anche Kathy Bates, nel ruolo della direttrice del collegio. Nel casta anche Debra Winger (qui in ruolo secondario), Josh Lucas, Eddie Izzard, e i ragazzi di The American Boychoir School.
- Forse voi lo sapete già, ma voglio dirvelo lo stesso: la maggior parte di voi ha un anno, due anni, al massimo due anni e mezzo, e poi il vostro dono, il mistero del vostro dono, quando vi sveglierete una mattina sarà scomparso. Alcuni di voi diventeranno contraltisti, altri dei baritoni, qualcuno farà il dentista, o l'ingegnere. Ma in ogni caso la vita vi riserverà altri doni speciali: la cosa più importante è che quando arriveranno voi li coltiviate come avete coltivato questo. (...)
(il maestro anziano al coro dei ragazzi, 1h21)
 

Musiche eseguite nel corso del film:
- Benjamin Britten: da "A ceremony of carols, op.28", i brani: This Little Babe, Balulalow, That yonge child
- Thomas Tallis: Spem in Alium, mottetto per otto cori a cinque voci, scritto intorno al 1570, tra i più difficili e affascinanti del repertorio polifonico ("spem in alium nunquam habui": "non ho speranza in altri se non in Te, Signore")
- Gabriel Fauré - Piae Jesu, dalla Messa da Requiem
- Georg Friedrich Haendel: "Coronation Anthems, n.1" (cioè "Zadok the priest", che molti riconosceranno come "la sigla della Champions League"), "Queen Anne Aria", e il famoso Hallelujah dal Messia, in un arrangiamento al quale è stato aggiunto un intervento da solista.
- Richard Wagner: un momento dal Parsifal (la musica sullo stereo del compagno di stanza di Stet)
- Felix Mendelssohn: Denn Er Hat Seinen... (accennata dal maestro al pianoforte, quando Stet si accorge che ha saltato una nota)
- Rachmaninov - Prelude in C-sharp minor (accennato dal maestro davanti a Stet)
e inoltre:
Groban: The Mystery of Your Gift.
Howe: Battle Hymn
Bottleneck: Home Grown Country Folk
Ogura: Hotaru Koi
Woolner and Sena: Lose their mind
Page: Niska Banja
Hopkins: Past life melodies
Jenkins: Adiemus
Le musiche scritte apposta per il film sono di Brian Byrne.
 

I testi per Britten:
 That yongë child
(di autore sconosciuto, XIV secolo)
That yongë child when it gan weep
With song she lulled him asleep;
That was so sweet a melody
It passèd alle minstrelsy.
The nightingalë sang also:
Her song is hoarse and nought thereto:
Whoso attendeth to her song
And leaveth the first then doth he wrong.
Balulalow
da un testo in tedesco di Martin Lutero, nella versione dei fratelli Wedderburn (1548)
O my deir hert, young Jesus sweit,
Prepare thy creddil in my spreit,
And I sall rock thee in my hert
And never mair from thee depart.
But I sall praise thee evermoir
With sangis sweit unto thy gloir;
The knees of my heart sall I bow,
And sing that richt Balulalow!
This little babe
testo di Robert Southwell (1561?-1595)
This little Babe so few days old
is come to rifle Satan's fold;
All hell doth at his presence quake
though he himself for cold do shake;
For in this weak unarmèd wise
the gates of hell he will surprise.
With tears he fights and wins the field,
his naked breast stands for a shield;
His battering shot are babish cries,
his arrows looks of weeping eyes,
His martial ensigns Cold and Need
and feeble Flesh his warrior's steed.
His camp is pitchèd in a stall,
his bulwark but a broken wall;
The crib his trench, haystacks his stakes;
of shepherds he his muster makes;
And thus, as sure his foe to wound,
the angels' trump alarum sound.
My soul, with Christ join thou in fight,
stick to the tents that he hath pight.
Within his crib is surest ward,
this little Babe will be thy guard.
If thou wilt foil thy foes with joy,
then flit not from this heavenly Boy

venerdì 13 aprile 2018

Cavalleria rusticana


Giovanni Verga pubblica la novella "Cavalleria rusticana" nel 1880, e la ambienta vent'anni prima, al tempo dell'arrivo di Garibaldi in Sicilia. Pietro Mascagni ne trae un'opera lirica di grande successo nel 1890, ancora oggi in repertorio: è la sua prima opera ed praticamente l'unica delle tante opere di Mascagni che viene ancora eseguita, con qualche eccezione (L'amico Fritz, Iris). Un aneddoto non secondario in proposito è che Verga fece causa per plagio all'opera di Mascagni, non tanto per il musicista quanto per gli autori del libretto, Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci. Verga vinse la causa, i due non avevano citato l'autore del soggetto e Verga ne ricavò una somma notevole come risarcimento.
"Cavalleria rusticana" è un titolo piuttosto presente al cinema, ma scorrendo l'elenco su Internet Movie Data Base, www.imdb.com , si notano subito due cose: che si tratta quasi sempre della novella di Giovanni Verga e non dell'opera che ne trasse Pietro Mascagni, e che la sequenza di titoli si ferma al 1953 con il film di Carmine Gallone. Insomma, si direbbe che il cinema abbia messo da parte "Cavalleria rusticana", che sia passata di moda già negli anni '50.
L'opera di Mascagni arriverà al cinema una sola volta, assieme ai Pagliacci di Leoncavallo, con il film di Zeffirelli del 1982; le altre versioni sono registrazioni fatte per la tv, mentre il film di Zeffirelli fu davvero distribuito nelle sale cinematografiche.
Nel dettaglio, prima dell'invenzione del sonoro abbiamo quattro versioni al cinema:
1910, regia di Emile Chautard
1916, regia di Ugo Falena
1916, regia di Ubaldo Maria del Colle
1924, regia di Mario Gargiulo
Nei tempi del sonoro abbiamo due versioni:
1939, regia di Amleto Palermi con Leonardo Cortese, Isa Pola, Carlo Ninchi
1953, regia di Carmine Gallone, dove tra gli interpreti spicca Anthony Quinn (Alfio), con May Britt ed Ettore Manni negli altri due ruoli da protagonisti. Si tratta dell'anno che precede "La strada" ed è molto probabile che Federico Fellini abbia contattato Anthony Quinn in occasione dell'uscita di questo film.
Qui finisce la presenza diretta della novella di Verga al cinema, anche se lo schema su cui si basa (gelosia, rivalità, duello, morte) è tra i più presenti nella storia del cinema e anche della narrativa più in generale.
Per l'opera di Mascagni, imdb.com porta quattro titoli:
1968, dirige Herbert von Karajan, regia di Ake Falk. Con Fiorenza Cossotto, Gianfranco Cecchele e Giangiacomo Guelfi, per la tv austriaca.
1982, regia di Franco Zeffirelli, un film vero e proprio che uscì nelle sale cinematografiche e che riprende l'allestimento alla Scala di quello stesso anno, in abbinata con "Pagliacci" di Leoncavallo. Georges Pretre dirige l'orchestra del Teatro alla Scala, gli interpreti sono Placido Domingo, Elena Obrazova e Renato Bruson, con l'aggiunta di Fedora Barbieri negli ultimi anni della sua carriera come contralto. Il film è girato in esterni, a Vizzini in Sicilia.
1990, regia teatrale di Mario Monicelli, con Shirley Verrett, il tenore Kristian Johansson e il baritono Ettore Nova; direttore è Baldo Podic
1996, a Bologna, direttore Riccardo Muti; con Waltraud Meier, Josè Cura, Paolo Gavanelli. La regia è di Manuela Crivelli.
 

Inoltre, "Cavalleria rusticana" di Mascagni è messa in scena nelle sequenze finali di "Il padrino parte terza" di Francis Ford Coppola, del 1990; ne ho già parlato per esteso su questo blog.




 

domenica 8 aprile 2018

Il segno del comando ( II )


Il segno del comando (1971) Regia di Daniele D'Anza. Soggetto di Flaminio Bollini e Giuseppe D'Agata. Collaboratori al soggetto: Dante Guardamagna, Lucio Mandarà. Fotografia di Marco Scarpelli. Musiche originali di Romolo Grano. Interpreti: Ugo Pagliai, Massimo Girotti, Carla Gravina, Rossella Falk, Andrea Checchi, Carlo Hintermann, Franco Volpi, Silvia Monelli, Paola Tedesco, Ferruccio Scaglia, Augusto Mastrantoni, Giorgio Gusso (il prete), Armando Alselmo (il cieco), Durata totale (cinque puntate): 165 minuti, bianco e nero.

Alla Basilica di Massenzio, il direttore d'orchestra (interpretato da Ferruccio Scaglia, all'epoca direttore stabile dell'orchestra Rai di Roma) darà le prime informazioni ai due protagonisti (interpretati da Ugo Pagliai e da Massimo Girotti) riguardo al misterioso musicista.
DIRETTORE: Sì, il Salmo XVII di Baldassarre Vitali è stato in programma la settimana scorsa, un concerto di musica sacra del Sei-Settecento. Ma, come forse sa, si trattava di una partitura per organo e coro mentre adesso stiamo provando una trascrizione per orchestra.
PAGLIAI: Nella chiesa di Sant'Onorio abbiamo trovato tutti i manoscritti di Baldassarre Vitali ma quello del Salmo XVII mancava.
DIRETTORE: Già, il manoscritto del Salmo diciassettesimo pare sia stato perduto, anche perché su questo autore, su questo musicista, non sono mai state fatte particolari ricerche. E' un musicista che per oltre un secolo ha avuto una vera eclissi di fortuna e solo da alcuni anni è stato riscoperto e direi giustamente rivalutato.
GIROTTI: Esistono biografie, pubblicazioni, scritti, su Vitali?
DIRETTORE: Pochissimo, quasi nulla. Le notizie su di lui sono molto vaghe, pare che sia vissuto e morto a Roma ma non si sa altro. Si ignora persino dove sia stato sepolto.
GIROTTI: Un personaggio abbastanza misterioso.
DIRETTORE: Già, e il manoscritto del Salmo XVII, se non è andato perduto, sarà magari nelle mani di qualche privato che lo custodisce gelosamente; anche perché è una composizione legata a una leggenda. Si dice che in quella musica sia nascosto qualcosa, un messaggio.
GIROTTI: Un messaggio?
DIRETTORE: Sì, secondo una tradizione che è stabilita agli inizi dell'Ottocento quella partitura sarebbe una specie di testamento musicale contenente la chiave di un segreto. Ma di che segreto si tratti, le assicuro che nessuno lo ha mai saputo.
 

Qui Girotti e Pagliai lasciano il direttore d'orchestra e li vediamo mentre attraversano le strisce pedonali accanto al Colosseo, accanto a delle suore (ci sono ancora tante suore a Roma, come nel 1971 ? dalle mie parti è diventato difficile vederne ancora, e mi dispiace).
Pagliai si interroga sulla coincidenza misteriosa, un omicidio proprio durante l'esecuzione pubblica di quella musica... Così gli risponde Mr. Powell, ovvero Massimo Girotti:
GIROTTI: Immagino che in quel momento in Italia un altro milione di persone sia stato davanti al televisore in quel momento, in mancanza di meglio. Ammettiamo pure che mezzo milione si sia addormentato, rimane sempre l'altro mezzo milione.
Quindi, non si può nemmeno parlare di coincidenza; o, almeno, così sembra. Ascoltato oggi, questo dialogo può lasciare perplessi: un milione di persone davanti alla tv per un concerto di musica sacra del '700! Magari avessimo oggi questi numeri. Ma alla tv del 1971 poteva davvero succedere, e da questo punto di vista erano sicuramente tempi migliori: io, per esempio, in quegli anni cominciavo a capire che c'era qualcosa oltre al Cantagiro e a Canzonissima, e alla Rai di quegli anni devo davvero molto perché mi ha permesso approfondimenti che oggi appaiono impensabili. E senza pubblicità, senza commenti idioti o approssimativi...
 

Ma, tornando al soggetto di "Il segno del comando", è nell'ultima puntata che abbiamo i chiarimenti così a lungo cercati sul misterioso musicista.
Quinta puntata
Ugo Pagliai percorre Roma in lungo e in largo, tra biblioteche antiche e rimandi byroniani, alla ricerca della soluzione del mistero che lo riguarda direttamente. A un certo punto ascolta una musica d'organo provenire da un palazzo, vi si precipita e si trova davanti a un cieco anziano, un organista, che gli apre la porta senza problemi e anzi si dice ben contento di poter chiacchierare con qualcuno. Il cieco, interpretato dall'attore Armando Alselmo, stava appunto suona l'organo: è il Salmo XVII ! Pagliai scopre che nella casa c'è anche il manoscritto, e il cieco (che ha una parte importante nella soluzione del mistero legato a Byron) è gentilissimo e glielo fa vedere e toccare.
 

CIECO: Vitali non volle lasciarlo alla chiesa perché era convinto che la sua musica fosse maledetta. Era un povero peccatore. (apre lo scaffale e glielo porge) Eccolo: «Salmo XVII, ovvero della doppia morte». Legga, legga le parole, sono una confessione straziante.
PAGLIAI (legge): «Voltai le spalle al Signore, e camminai sui sentieri del peccato...»
Ne è subito colpito, perchè si tratta dei versi attribuiti a Byron che ha trovato sul diario inedito. Quindi i versi sul diario del 1817 non sono di Byron, ma sono stati da lui trascritti. La sua attenzione è però distratta dall'apparizione del fantasma nel parcheggio sottostante, quindi Ugo Pagliai si congeda dal cieco e corre a cercare la misteriosa donna.
 

Più avanti, nella sua conferenza all'ambasciata inglese, ascolteremo il testo completo:
«Voltai le spalle al Signore, e camminai sui sentieri del peccato. Dritta è la strada del male ma quando il tempo finì la strada era finita, e così l'anima mia perché avevo voltato le spalle al Signore.»
A quel punto, si può intuire, Byron ebbe davanti il fantasma di Vitali (che aveva ucciso Brandani); forse Vitali uccise Brandani per carpirgli il "segno del comando", forse lo nascose in seguito, forse i versi sono una mappa per ritrovare il segno del comando... Anche Vitali era un negromante, e conosceva le arti oscure.
Però forse qualcuno non ha ancora visto lo sceneggiato tv, forse molti non se lo ricordano, perciò lascio in sospeso la soluzione del quiz. Di sicuro, chi ha visto lo sceneggiato si ricorda delle apparizioni di Carla Gravina.
 

Alcuni appunti che mi ero segnato durante la visione, due anni fa: con l'avvertenza che vi si svelano alcuni dei misteri dello sceneggiato.
- su internet, il blog di Davinotti www.davinotti.com  porta tutti i luoghi dove è stato girato il film: le curiosità principali riguardano la piazza del dipinto, che è Piazza dei Coronari, e l'angelo del finale che è nell'oratorio di San Gregorio al Celio. Per trovare facilmente le pagine giuste basterà digitare su un motore di ricerca qualcosa come "davinotti blog segno comando".
- a tratti ricorda un film di Roman Polanski, "La settima porta", anche nel soggetto
- c'è una citazione esplicita di Dreyer, Il Vampiro, per l'incubo della quarta puntata, girato dentro il fondo di un bicchiere.
- Nella sigla di aperture e chiusura, e anche durante il film, vediamo alternarsi tarocchi, simboli alchemici, e anche simboli ebraici come l'albero delle shekinah, ma tutto un po' troppo raffazzonato; non credo però che si volesse andare in profondità, era solo uno sceneggiato tv e probabilmente si cercavano "immagini misteriose" senza chiedersene il significato. L'abero delle shekinah, per esempio, è un simbolo molto bello e molto positivo.
- belli gli orologi antichi nella casa del colonnello Tagliaferri, nella prima puntata

 
- la regia piuttosto artigianale mi riporta alle discussioni di quegli anni su cinema e tv; la differenza di qualità c'era ed era più che tangibile, basti pensare che "Il segno del comando" è dello stesso anno del "Conformista" di Bertolucci. Un abisso, quindi; e due anni prima lo stesso Bertolucci aveva girato per la Rai "Strategia del ragno", ed è solo il primo esempio che mi è venuto alla memoria. Non era sempre così, ci sono sceneggiati tv di quel periodo molto belli e molto ben girati, ma la tv era comunque meno curata e secondo me continua ad esserlo ancora oggi: caso mai è il cinema che si è abbassato di livello
- lo spiritismo è passato di moda, chissà se qualcuno se ne occupa ancora; purtroppo molti sono saltati direttamente al satanismo o al culto del fascismo (che è poi la stessa cosa).
- l'intreccio è giustificato con i nazisti che cercavano sia "il segno del comando" che un carteggio fra inglesi potenti e nazisti. Di queste cose, tutte suggestioni, è però un fatto storicamente provato che i nazisti fossero anche occultisti.


- Tra gli autori, Giuseppe D'Agata è autore di romanzi e soggetti che andrebbero ripensati, per esempio quello di "Il generale dorme in piedi". satira antimilitarista con protagonista al cinema un ottimo Ugo Tognazzi.
- la piazza del quadro viene riconosciuta perché l'organista cieco la descrive come era prima delle modifiche, che lui non ha mai visto; è un dettaglio spiegato troppo sbrigativamente, c'era tutto il tempo per farsi capire meglio.
- gli scavi della metropolitana, come in "Roma" di Fellini, che è dello stesso periodo; Pagliai cade davanti a una ruspa e lo salva la sirena di fine turno, a mezzanotte del 28 marzo 1971 (data fatidica per lo sceneggiato)

- i nomi inventati: Baldassarre Vitali è il musicista (date ignote) che fu contemporaneo dell'orafo alchimista Ilario Brandani (1735-1771), la sua reincarnazione Marco Tagliaferri, pittore (1835-1771). Ugo Pagliai è però del 1938.

 
 

(2-fine)

venerdì 6 aprile 2018

Il segno del comando ( I )


Il segno del comando (1971) Regia di Daniele D'Anza. Soggetto di Flaminio Bollini e Giuseppe D'Agata. Collaboratori al soggetto: Dante Guardamagna, Lucio Mandarà. Fotografia di Marco Scarpelli. Musiche originali di Romolo Grano. Interpreti: Ugo Pagliai, Massimo Girotti, Carla Gravina, Rossella Falk, Andrea Checchi, Carlo Hintermann, Franco Volpi, Silvia Monelli, Paola Tedesco, Ferruccio Scaglia, Augusto Mastrantoni, Giorgio Gusso (il prete), Armando Alselmo (il cieco), Durata totale (cinque puntate): 165 minuti, bianco e nero.

"Il segno del comando" è uno sceneggiato tv della Rai che ebbe grande successo nel 1971, e che in seguito venne più volte replicato; è in sostanza una storia di fantasmi, molto avvicente anche se non sempre del tutto convincente nel suo svolgersi (difetto tipico di tutti i gialli e i thriller e delle storie di fantasmi, detto en passant). Si svolge a Roma, con belle sequenze e belle vedute romane non banali, ed è un peccato che non si possano vedere le pellicole originali perché le registrazioni video di quegli anni sono piuttosto precarie. Interessante anche il giro del protagonista Foster (Ugo Pagliai) per le biblioteche romane in cerca di libri antichi che possano aiutarlo nella soluzione del mistero, legato alla permanenza di Byron a Roma nel 1817.
Nell'intreccio della storia raccontata ha notevole importanza una partitura musicale, ed è per questo motivo (più che altro una curiosità) che porto qui sul blog anche "Il segno del comando". Le musiche che si ascoltano sono di Romolo Grano (cosentino, nato nel 1929, autore di molte colonne sonore per gli sceneggiati Rai di quegli anni), compresa la celebre sigla di apertura e chiusura "Cento campane" (di Fiorentini-Grano, con la voce del cantante Nico); si finge però che siano opera di un compositore misterioso, Baldassarre Vitali. Nella quarta puntata è presente come attore anche il direttore d'orchestra Ferruccio Scaglia.


Ugo Pagliai e Massimo Girotti, protagonisti dello sceneggiato, interpretano due inglesi a Roma: Pagliai (Foster) è uno studioso di Byron e Girotti (Powell) un addetto dell'ambasciata inglese. Fin dall'inizio Pagliai si imbatte in una misteriosa e affascinante presenza, affidata a Carla Gravina; la storia verte sulla presenza di Byron a Roma, sulla passione di Byron per lo spiritismo, e su un diario inedito del poeta inglese risalente al 1817 che vediamo anche noi su microfilm (interessanti le sequenze, ormai documentarie, dove si vede il macchinario per visualizzare il microfilm). C'è tutta una storia di reincarnazioni nel corso dei secoli, protagonisti il misterioso orafo e occultista Ilario Brandani, e il pittore ottocentesco Tagliaferri (tutti personaggi inventati, così come il musicista Vitali). Mi fermo qui con la storia di quello che succede, basterà dire che alla fine della quinta puntata, Andrea Checchi (commissario di polizia) spiega tutto quello che è successo in modo più che razionale, però poi nell'ultima scena il dubbio ritorna. Nel cast molti attori di prestigio, come Rossella Falk e Carlo Hintermann. La visione dello sceneggiato può deludere, va detto subito che "Il segno del comando" non è all'altezza di altri sceneggiati televisivi di quegli anni, abiti e costumi oggi appaiono molto goffi, molte sequenze e dialoghi necessiterebbero di qualche taglio in sede di montaggio, e purtroppo Daniele D'Anza non è un gran che come regista, almeno in questo film.


Nella parte musicale si può ricordare che siamo nel 1971, quindi agli inizi della rinascita barocca, e più in generale della musica che va dal '500 agli inizi dell'800, coinvolgendo anche Rossini e Monteverdi; in questi anni si cominciano a vedere e ascoltare le orchestre con strumenti d'epoca. Sono studi e situazioni, ed esecuzioni in concerto, che oggi, a quasi mezzo di secolo di distanza, si danno per scontate; ma così non era nei primissimi anni '70. In quel periodo uscivano anche film come "Anonimo veneziano", sempre costruito intorno a un ipotetico musicista dimenticato; e il tema della musica "maledetta" è da sempre presente in letteratura (per esempio in Hoffmann) e nel cinema. Una parte di questa vena musicologica è finita anche nella sceneggiatura di "Il segno del comando", e la riporto qui meglio che posso.
 

"Il segno del comando", quarta puntata
Durante le indagini, diventa importante sapere cos'era "la musica che trasmettevano in tv quel giorno..., un concerto dalla Basilica di Massenzio, l'11 marzo alle ore 14" (del 1971, suppongo). Si fa una ricerca in Rai, si scopre che era il Salmo XVII (diciassettesimo) di Baldassarre Vitali. Nella chiesa di sant'Onorio a Roma c'è un prete veneto (l'attore si chiama Giorgio Gusso) che custodisce tutta l'opera di Vitali, Girotti e Pagliai vanno a trovarlo.
PRETE: Si tratta di un lascito della seconda metà dell'Ottocento (...)
PAGLIAI: Vedo che nella collezione dei salmi manca il diciassettesimo.
PRETE: Eh sì, purtroppo quello non lo abbiamo. E' l'unico che manca, sa. (...)



Pagliai e Girotti vanno quindi alla Basilica di Massenzio, dove un'orchestra sta provando, per chiedere altre informazioni al direttore d'orchestra che ha eseguito quel brano trasmesso alla radio. L'orchestra, anche se non si dice mai, è quasi certamente quella della Rai di Roma; i titoli di coda portano invece il nome del direttore, che è Ferruccio Scaglia. Il torinese Ferruccio Scaglia (1921-1979) è stato un direttore d'orchestra importante, e negli anni '50 un ottimo violinista nei concerti da solista; qui recita questa breve scena in modo convincente. L'orchestra Rai di Roma era allora in piena attività, e aveva alle sue spalle registrazioni e concerti con tutti i più grandi direttori d'orchestra del mondo; memorabili per esempio le incisioni con Wilhelm Furtwaengler dei primi anni '50. Le orchestre regionali della Rai (Milano, Torino, Roma, Napoli) erano una realtà importante, e lo furono per parecchi decenni; furono cancellate nei primi anni '90 dai governi di destra durante una delle prime infernali riforme della Rai. Salvatore Accardo ebbe a dire, dati alla mano, che il costo annuale delle quattro orchestre Rai era inferiore a quello di una sola puntata del Festival di Sanremo. Ma ovviamente le persone che erano andate al governo in quegli anni non avevano interessi nelle orchestre, e le chiusero. 


Le musiche che si ascoltano sotto il nome "Baldassarre Vitali" sono in realtà di Romolo Grano.
Il direttore d'orchestra darà molte informazioni utili a Girotti e a Pagliai; molte, ma non tutte.

 
(1-continua)

domenica 1 aprile 2018

Gli anagrammi di Tamagni


Giocare con gli anagrammi è bello, ma i risultati sono spesso deludenti a meno di essere davvero bravi. Di anagrammi davvero belli, o significativi, in realtà ce ne sono pochi; in campo musicale è magnifico quello indicato da Alfred Brendel: silent / listen.  I più belli che io conosco, in italiano, sono Bibliotecario/Beato coi libri e  Attore/Teatro.
Sul piano personale, non posso non essere colpito da calcio/colica. Non per via del football, ma perché i calcoli renali sono fatti di sali di calcio, nel mio caso ossalati di calcio. E anche colica, a guardar bene, è un quasi anagramma di calcoli. Chi ci è passato sa di cosa parlo...
Molto spesso si rimane delusi dagli anagrammi, e secondo me quelli brutti non andrebbero pubblicati. Uno dei più brutti è Eugenio Montale / Uomo inelegante, del tutto privo di senso. Insomma, molto spesso è meglio lasciar perdere gli anagrammi - a meno di non chiamarsi Ernesto Tamagni.


In memoria del musicista Ernesto Tamagni, i suoi anagrammi
VESPRI SICILIANI O PASSERI INCIVILI?
di Stefano Bartezzaghi, Venerdì di Repubblica 4 settembre 2006
A giugno, a Milano, è scomparso un musicista che si chiamava Ernesto Tamagni. Fra le tante attività, amava anche l'enigmistica e faceva un gioco che è l’equivalente musicale degli anagrammi letterari che abbiamo visto nei giorni scorsi.
Me ne ha parlato una e-mail di Ginetta Ravera: «Era un musicista milanese, docente di teoria e solfeggio al conservatorio di Milano e quotato pianista ed organista. Era abilissimo nei giochi matematici, nell'inventare palindromi e anagrammi, amava camminare in montagna, arrampicarsi sulle rocce, nuotare, viaggiare in tandem, giocare a scacchi, visitare musei, risolvere cruciverba. La sua mente era sempre attiva ed i suoi interessi non avevano limiti. Era non vedente, ma si trattava di un particolare che tutti smettevano di notare dopo un minuto passato con lui. I suoi anagrammi avevano per tema soprattutto la musica. Gliene mando qualcuno».
Ecco dunque gli anagrammi di Tamagni.
Rossini - Il turco in Italia: «I tori allucinati»
Rossini - L'assedio di Corinto: «Odio l'indossatrice».
Richard Strauss - Il cavaliere della rosa: «La vera sorella di Alice».
Mozart - Il flauto magico: «Famiglia Cutolo».
Verdi - I lombardi alla prima crociata: «Compro i mariti dalla Calabria».
Debussy - Pelléas et Mélisande: «Le spese delle amanti».
Cilea - Adriana Lecouvreur: «L'aurora riceve nuda».
Verdi - I vespri siciliani: «I passeri incivili».
Wagner - Il crepuscolo degli dei: «Le spie del circo di Lugo».
Donizetti - L'elisir d'amore: « Il merlo di sera ».
Giordano - Andrea Chénier: «Chiederan rane».
Monteverdi - L'incoronazione di Poppea: «Inni e danze poco popolari».
Monteverdi - Il ritorno di Ulisse in patria: «Polli arrostiti insani e duri».
Rossini - L'italiana in Algeri: «Alianti in galleria».
Mozart - La finta giardiniera: «Fra i gerani di Latina».
Rossini e Paisiello - Il barbiere di Siviglia: «Serbi gelidi variabili».
Saint Saens - Sansone e Dalila: «L'asina olandese».
Weber - Il franco cacciatore: «Circolare con fatica».
Mozart - La clemenza di Tito: «Calzoni maledetti».
Verdi - La forza del destino: «Fidanzate dell'orso».
Zandonai - Francesca da Rimini: «Marcisce in Fiandra».
In rete ci sono delle foto di Ernesto Tamagni, ed è completamente diverso da come me lo ero immaginato: giovane, snello, elegante, con quegli occhiali scuri lo si direbbe uno sciatore appena tornato dalle piste. Le foto, infatti, sono quasi tutte dal sito dell'Unione Italiana Ciechi; ma questo lo aveva già ricordato la signora Ginetta Ravera, che ringrazio molto (lei e Bartezzaghi).


L'immagine in alto è una pubblicità antica, Topolino in "The haunted house" è del 1929, il gatto violinista è una foto di Henry Pointer del 1872, i passeri incivili vengono dal giornale St.Nicholas Magazine del 1874, l'origami qui sotto era purtroppo senza indicazioni, così come lo spartito listen / silent.