domenica 24 dicembre 2017

Il Messia ad Alessandria d'Egitto


 
Un ricordo di Paolo Terni:
Ho goduto del privilegio di partecipare al rito forse più esclusivo della vita alessandrina: l’ascolto natalizio integrale in dischi del Messiah di Handel in casa del Comte Patrice de Zogheb.
La cerimonia avveniva nel tardo pomeriggio della vigilia. Si prendeva posto in un salone scuro, stretto e lungo, seduti di fronte a una sorta di pedana-palcoscenico, arredata da due grammofoni a manovella (detti pick-up), poggiati su due mobili uguali posti simmetricamente, ai due lati, gli altoparlanti rivolti al pubblico. Sedute, una per grammofono, ciascuna col proprio abat-jour a stelo, due creature britannicissime: magre, secche, scarpe nere con bottone di madreperla,« permanenti» fitte fitte, abito di sera imprimée (possibilmente con piccoli disegni bianchi su fondo bleu-marine), talvolta uno scialletto di angora. Disponevano, ciascuna, di una sedia Thonet nera e, a fianco, di un tavolino ottomano intarsiato ov’erano poggiati gli album con i dischi a 78 giri, ovviamente in doppia copia, una per tavolino.
A un certo punto il Conte - alto, magro e calvo - emergeva da non si sa dove per salutare i suoi ospiti dalla pedana. Solo in quel momento si potevano distinguere un po’ meglio, nella penombra, gli ospiti d’onore: due vecchissime persone, marito e moglie, poste anch'esse à pendant, uno di fronte all’altra, nello spazio tra il palcoscenico e la prima fila, in certe bergères a piccolo punto messe di traverso alle sedie, scomodissime, di noialtri ospiti ordinari. Lui era un lord irlandese, vecchio vecchio, elegantissimo, pallido e chino sulle mani giunte. Lei sembrava molto più vecchia di lui, sul punto di spegnersi, in tulle verde, collana di perle, truccatissima, un viso lievemente caprigno. Ci fu un cambio di luce: al buio gli ospiti; illuminate le due attendenti inglesi sul palcoscenico; due piccoli abat-jour suppletivi evidenziavano - in un diffuso chiarore roseo arancione - gli ospiti d’onore.
La procedura rituale era la seguente: mentre andava la prima facciata sul grammofono di sinistra, a destra, in piena luce, l’altra britannica vestale faceva girare una lucida manovella con gesto immaginatosi ieratico ma che non celava del tutto un che di rudemente sportivo, automobilistico o da regata navale. Dopo aver preso in mano il disco venivano inforcati occhialini dorati appesi al collo per controllare il numerino sull'etichetta prima del caricamento, Poi, agguantato il braccio metallico del grammofono e tiratolo verso destra, avviava il piatto. A quel punto rimaneva pochissimo tempo per poggiare la puntina - evitando rumori incongrui - e far partire il suono senza pausa, come finiva la prima facciata, curata dalla prima vestale sul primo grammofono. La continuità musicale era perfetta ma, calcolando in un’ora e mezza, più o meno, la durata del Messiah e in pochissimi minuti quella di una facciata di disco a 78 giri, è facile immaginare il numero iperbolico di queste operazioni.
E noi, seduti su seggiole lignee, marroni, striminzite, non sapevamo più dove guardate: se la miss esausta, momentaneamente adagiatasi sulla Thonet di sua pertinenza in apparente, provvisoria estasi musicale, o quell’altra, febbrilmente intenta alle mansioni che ormai conoscevamo a memoria e seguivamo in un clima di reale suspense. Il lord e consorte recitavano divinamente la massima trasfigurazione mistica con garbo e piccoli cenni di assenso che male riuscivano a celare - all’occhio perfidamente esperto - un concreto letargo.
Alla fine del primo tempo, prima della Pastoral Symphony, le porte in fondo al salone venivano fatte scorrere, rivelando un rude buffet, del tutto estraneo alle raffinatissime usanze alessandrine (e quindi assai deriso nelle conversazioni del giorno dopo), a base di caffellatte caldo e sandwich al formaggio cheddar o al prosciutto cotto.
Ripresa la cerimonia per il secondo tempo, a poche battute dall’avvio del Hallelujah!, gli incartapecoriti ospiti d’onore si alzavano in piedi assumendo una postura regale: assai volgare invece il disordinato tramestio, come a Messa, di tutti gli altri. Debbo confessarlo: quel solenne e forse un po’ ridicolo atto reverenziale mi impressionò alquanto e mi procurò un brivido di commozione. Era una manifestazione formale di rispetto per una partitura musicale e solo per essa: quale altro gesto così preciso e allo stesso tempo così astratto possiamo invocare in onore della musica? Era facile peraltro il paragone con quel doversi alzare, tra annoiato e distratto, all’inizio di ogni spettacolo cinematografico, alla proiezione dell'immagine sbiadita - color seppia - del giovane re Faruk e al suono di una marcia reale delle più improbabili, improntata com’era all’andazzo delle peggiori operette italiane cui si era maldestramente ispirato l'italianissimo compositore.
(Paolo Terni, numero diciannove da "In tempo rubato", ed. Sellerio)

 
(lo storico della musica Paolo Terni crebbe ad Alessandria d'Egitto, ai tempi di re Faruk, quando in quella città esisteva ancora un numerosa comunità cosmopolita)
 
 
(dall'alto: un dipinto di Lecomte Vernet; due pubblicità di trent'anni precedenti ai ricordi di Paolo Terni - ma è probabile che il grammofono fosse quello; un fotogramma dal film su Delius con regia di Ken Russell; un dipinto di George Harcourt)

2 commenti:

  1. Paolo Terni ha scritto dei libri molto belli, come questi due editi da Sellerio. Mi domando spesso come sia possibile che libri di autori grandi non arrivino nemmeno a recensioni sui giornali.

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