lunedì 18 novembre 2019

L'Opera di Sydney

 
Sul supplemento di Repubblica di venerdì 8 novembre 2019 trovo una lunga intervista al direttore artistico dell'Opera di Sydney, Lyndon Terracini; quello che leggo da un lato mi fa piacere, perché è bello sapere che l'opera lirica va avanti e trova nuovo pubblico, da un altro lato mi dispiace e mi irrita.
Provo a mettere ordine nelle mie sensazioni seguendo le pagine del giornale: Lyndon Terracini ha 69 anni, è nato a Sydney ed è imparentato con Umberto Terracini, presidente dell'Assemblea Costituente e antifascista, dunque un'ottima nascita. Ha studiato da baritono, e ha vissuto per lungo tempo a Faggeto Lario. L'Opera di Sydney è un grande teatro, inaugurato nel 1973; si tratta di una specie di monumento nazionale australiano, è un edificio famoso e celebratissimo, quindi non mi dilungo. La notizia è questa: sotto la gestione di Lyndon Terracini l'Opera di Sydney fa profitti, e ha raggiunto un livello artistico notevole.
 

La prima frase che ritaglio è questa: « L'Italia è la culla della lirica, anche se arrivano voci allarmanti sulle sorti dei teatri d'opera.» Questo purtroppo è vero, se i grandi teatri (Scala, Fenice, Roma, Firenze) sono ben finanziati, non altrettanto si può dire per i teatri storici delle città meno grandi. Non solo: in Italia chi si interessa all'opera lirica viene in qualche modo bollato come persona strana. Quante volte mi sono sentito dire "ma come fa a piacerti quella roba lì", e sentirmi contrapporre un vasco, un rapper, una Ciccone. A vent'anni ero positivo, mi dicevo che se uno come me era arrivato a capire la grande musica la strada era aperta per tutti; e invece oggi (Nuovo Millennio) sento ogni giorno definire "grande musica" le canzoni della tv degli anni '60 e "musicologo" chi si occupa del festival di Sanremo. Abbiamo ancora tanti ottimi musicisti, grazie al Cielo, ma così va in Italia: provate a seguire qualche quiz in tv, per fare solo un piccolo esempio, e ad ascoltare cosa si chiede ai concorrenti alla voce "musica". Terracini prosegue dicendo che il futuro dell'opera lirica è in Cina e nei paesi limitrofi, come la Corea; e aggiunge che in Cina "costruiscono teatri favolosi e tecnologicamente avanzatissimi e hanno formato una invidiabile scuderia di artisti". Aggiunge che "oggi il più grande baritono verdiano è il mongolo Amartuvshin Enkhbat (trionfale il suo Nabucco a Parma)".
 
A inizio intervista, Lyndon Terracini dice una gran bella frase: "Noi a teatro vogliamo la gente comune, l'élite ce l'abbiamo già", e io sono contento perché penso a Claudio Abbado, a Paolo Grassi, a Giorgio Strehler, che dicevano la stessa cosa cinquant'anni fa. Ma, proseguendo nell'intervista, mi accorgo che non è proprio la stessa cosa. Se Claudio Abbado e Maurizio Pollini, cinquant'anni fa, portavano la grande musica nelle scuole e nelle fabbriche, a Sydney invece Lyndon Terracini apre alla musica leggera: «... il 50 per cento dei profitti proviene dal box office della lirica, il dieci da donatori e sponsor e il 20 da fondi governativi; il resto viene dal musical, che richiama un pubblico vastissimo» . L'autore dell'articolo, Giuseppe Videtti, aggiunge che Lyndon Terracini "inorridisce quando gli raccontiamo che la Scala ha rifiutato Veronica Ciccone": ma alla Scala hanno fatto bene, una come la Ciccone è meglio se si esibisce allo stadio. Non per altro, ma perché la Scala fa duemila posti e il Meazza invece arriva tranquillamente a ottantamila, non mi sembra un'idea geniale se si mira all'incasso. Oltrettutto, la Ciccone canta con il microfono e usare gli amplificatori alla Scala non è bello: lo dico per esperienza diretta, io ho ascoltato Carmelo Bene alla Scala, e l'amplificazione disturbava moltissimo e copriva l'orchestra nel Manfred di Schumann - uno dei miei peggiori ricordi in teatro (quella sera con Carmelo Bene, intendo).

 
Lyndon Terracini ha un'uscita azzardata: « Sappiamo tutti che il musical non è poi così lontano da Puccini». Qui non ci siamo, il musical è lontanissimo da Puccini, caso mai somiglia un po' all'operetta per via dell'alternanza fra cantato e parlato. In Puccini è tutto cantato, e il livello musicale è molto più alto; ma anche se si ascolta Lehar nell'originale, con i grandi cantanti e i grandi direttori, la differenza qualitativa con il musical è molto grande e non percepirla mi sembra strano. In cartellone a Sydney, comunque, ci sono South Pacific ed Evita.
 
 
Maurizio Scardovi, presidente di Punto Opera Artist Management (una specie di Mino Raiola?) aggiunge: « La Scala in mano a uno come Terracini non solo avrebbe risolto i suoi problemi, ma potrebbe permettersi di finanziare un secondo teatro». Mi viene da pensare al Lirico, chiuso da un'eternità, o al Teatro degli Arcimboldi, che ha meno di vent'anni: siamo sicuri che a Milano si possa fare la stessa politica che si fa Sydney? Io la vedo dura... Lo stesso Scardovi chiude entusiasta l'articolo:« Venire in Italia? Non glielo permetterebbero mai - conclude con una risata Maurizio Scardovi - dimostrerebbe che col teatro si può guadagnare. Sacrilegio!». Mah.
L'autore dell'articolo, Giuseppe Videtti, insiste: "Non c'è nulla che Terracini consideri audace o irrispettoso quando si tratta di trovare fondi", ma non è una novità. questa cosa la disse già Badini, sovrintendente della Scala nel periodo subito dopo Paolo Grassi (primi anni '80) aggiungendo "sulle locandine ci scrivo anche Hatù" (Hatù era una famosa marca di preservativi, non so se esista ancora).
Ma, fin qui, passi. Mi ha recato molto dispiacere leggere cosa scrive subito dopo Videtti: "un teatro che a differenza delle nostre bomboniere barocche cariche di velluti e di cristalli, è una struttura all'avanguardia". Videtti di solito si occupa di musica leggera, su Repubblica; non so che preparazione abbia, ma dire queste parole sui teatri italiani mi sembra di una superficialità e di una grossolanità impossibile da accettare. L'opera italiana è nata in quei posti lì, a Sabbioneta, a Mantova... Scrivo un altro "mah", giusto per non dire tutto quello che penso (che si fa, li buttiamo giù e chiamiamo un archistar per farci la diretta del Festival di Sanremo?).

 
« Non creda che chiunque metta piede qui dentro acquisti un biglietto per l'opera, il prezzo è alto, si aggira sui 350 dollari australiani (più di 215 euro)» dice ancora Lyndon Terracini, e spiega che "il teatro è sempre aperto, chiude soltanto a Natale e a Pasqua, seicento recite l'anno". Io alla Scala sotto la gestione di Abbado andavo in loggione, con tanti altri, e spendevo meno che andare al cinema. Chissà se c'è l'equivalente del loggione, all'Opera di Sydney, o se si punta tutto solo su chi può spendere e spandere: l'articolo non lo dice, a me piacerebbe saperlo.
Apprendo invece che dal 2012 è aperta "Opera on Sydney Harbour", palcoscenico aperto sulla baia nei mesi estivi, tremila posti, cinque ristoranti: "qui nessuno si scandalizza se alla prima di una Butterfly outdoor ci sono ragazzi con un hamburger e una pinta di birra". Anche questa non è che sia proprio una novità: si sa che alla Scala, anche al tempo di Rossini, il primo introito era il gioco d'azzardo; poi per fortuna hanno smesso e si è andati a teatro solo per la musica. Non mi sembra un gran biglietto da visita: magari, dopo hamburger e birra, anche un bel rutto?
Aggiunge ancora Videtti: "cartellonistica e programmi di sala e spot tv sono modernissimi e cinematografici: scelta irrispettosa si direbbe da noi, ma questa è la chiave con cui Terracini ha aperto ai giovani le porte dell'opera". Nel dettaglio, si parla di "un manifesto con Faust en travesti": ancora? Mamma mia, che noia. Nazisti, mafiosi, travestiti... ne abbiamo visti troppi negli ultimi decenni, sono diventati la regola e secondo me andrebbero banditi dai teatri d'opera, a meno che non siano esplicitamente richiesti dal compositore. Certo, se si vuol mettere in scena "The rocky horror picture show", tutto fa brodo. Sempre per tornare alla mia esperienza, negli anni '70 le porte ai giovani le avevano aperte Abbado, Pollini, Grassi, Strehler, Sinopoli, Berio, e tanti altri; e con ben altro livello culturale.
A dare un tocco di colore all'articolo ecco l'inevitabile citazione per Alfredo's "il ristorante italiano il cui proprietario è la memoria storica della lirica in Australia", un napoletano da 40 anni a Sydney che fu il cuoco di Pavarotti - così a occhio direi che Pavarotti era capace di farsi da mangiare da solo, o in famiglia, e in ogni caso era cucina emiliana; comunque sia, può darsi, ma non è che sia un'informazione di cui sentivo il bisogno. Temo che Alfredo's sia fuori dalla portata delle mie tasche, così come i biglietti della Sydney Opera House.
 
Dato che si affaccia sull'oceano, l'Opera di Sydney non poteva che essere così, come una vela gonfia o un'astronave aliena (cito ancora Videtti); però dispiace veder definire in questo modo i nostri teatri (come il Farnese di Parma, che vedete nelle immagini di questo post), grandi capolavori di acustica e di architettura L'autore dell'articolo probabilmente è più abituato ai concerti amplificati, a vasco a san Siro; io tenderei ad assolvere Terracini, che si direbbe un ottimo manager, ma ho invece molte riserve su quello che scrive Videtti e su quello che dice Scardovi.
Sempre rimanendo nel mio piccolo, e pensando alla Scala, continuo a pensare che il palcoscenico che andava bene a Giuseppe Verdi e a Puccini non aveva bisogno di essere ampliato, come è stato fatto nel 2000. Ovviamente il restauro è stata un'ottima cosa, ma qui si è esagerato. Metto qui sotto una foto di come era la Scala quando l'ho conosciuta, senza la "tag" dell'archistar che ha lasciato il suo segno nel palazzo del Piermarini, e con i colori ottocenteschi che videro ogni giorno Verdi e Puccini. Per me quel "restyling" della Scala è stata la perdita di un'aura, come avrebbe detto Elemire Zolla (vedi "Aure", ed. Marsilio) ma forse ai Videtti va bene anche così, e ormai comunque è andata, amen: mi rimane solo uno sfogo su questo piccolissimo blog, poi nulla.

(La Scala, anno 1968)

 
 
 
(nelle immagini, il cinquecentesco Teatro Farnese a Parma;
le foto a colori le ho prese molto tempo fa e non trovo più i link, me ne scuso;
la panoramica in bianco e nero viene dal film di Valerio Zurlini
"La ragazza con la valigia", con Romolo Valli e Claudia Cardinale)
(la foto della Scala nel 1968 viene da una vecchia enciclopedia)

 


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