sabato 21 dicembre 2019

Noioso a chi?


 
La noia all'opera? Mai esistita. Per esempio, l'Alceste di Gluck, versione italiana, diretta da Riccardo Muti, stagione 86/87, regia di Pierluigi Pizzi (statica, neoclassica, emozionante); nel finale, Alceste per salvare il marito Admeto si lascia morire, e viene portata nell'Ade. Nel retroscena, dietro le quinte, il coro: "Piangi, o patria, o Tessaglia: Alceste è morta". Quando ci ripenso, mi vengono ancora i brividi; ma tutta quell'Alceste è stata un'emozione incontrollabile.
Voglio dire: non ho nemmeno bisogno di tornare col pensiero a Verdi, a Puccini, a Strehler, a Zeffirelli, a Kleiber, a Claudio Abbado, l'elenco delle emozioni provate all'opera non finirebbe mai. E se poi aggiungo le emozioni provate a casa, in disco o alla radio, potrei andare avanti per giornate intere: e sono emozioni che tutti gli appassionati d'opera conoscono benissimo, infatti non mi sarei mai sognato di scriverci sopra qualcosa. Invece oggi, trent'anni dopo, mi tocca leggere un'intervista al regista Damiano Michieletto dove fin dal titolo si dice "Ho tolto la noia dall'opera". (Venerdì di Repubblica, 13 dicembre 2019). Michieletto ha 44 anni, non so da quale pero sia cascato in mezzo a noi, ma io all'opera non mi sono mai annoiato - anzi. Chissà dov'era il regista veneto nel 1979-80, per il Boris Godunov diretto da Claudio Abbado che ha segnato il mio primo spettacolo visto alla Scala; e chissà se ha mai sentito parlare delle regie di Luchino Visconti negli anni '50, o delle polemiche per Adolphe Appia e le sue regie wagneriane di inizio Novecento... Se poi si va indietro all'Ottocento, sono frequentissime le cronache di grandi entusiasmi e di grandi discussioni.

 
L'opera lirica presenta molte difficoltà all'inizio, quando ancora non la si conosce: bisogna abituarsi, avere la pazienza di entrare in un altro mondo. Non è affatto facile, ma quando si sono trovate le chiavi le porte sono aperte, e la noia non entra mai in quel giardino. Alcuni trovano noioso Monteverdi, altri non sopportano Wagner, io reggo malissimo Mascagni e Rachmaninov, ma è solo questione di tempi, di stagioni, di esecuzioni musicali più o meno riuscite.
Trovo molto fastidioso anche il modo in cui Michieletto liquida chi non è d'accordo con lui: nessuno di noi è depositario della verità, e la signora che picchia il pugno sul tavolo di regia gridando "Vergogna!" dopo aver assistito a un Romeo e Giulietta ambientato in discoteca andava ascoltata (Gounod, nel 2009, non dice dove), così come le proteste per le scene di sesso esplicito in "The Rake's Progress". Le scene di sesso esplicito nel "Faust" di Stravinskij non sono affatto necessarie, così come l'ambientazione in discoteca di una tragedia shakespeariana: è un arbitrio del regista, che può essere più o meno felice, ma è comunque qualcosa di diverso da ciò che è scritto sul cartellone del teatro, e di conseguenza il pubblico ha tutte le ragioni di protestare. Michieletto conclude dicendo che a Salisburgo e a Vienna ha avuto successo ed è andato tutto bene: ok, allora vietiamo l'ingresso a chi non è d'accordo col regista, e cancelliamo quei rompiballe che protestano, compresi i loggionisti della Scala che lasciarono biglietti in platea per protesta dopo la regia di Michieletto per "Un ballo in maschera" (anno 2013).
Il regista veneto dice ancora "o si fa così o si muore", e muore l'opera lirica, intende. Senza Damiano Michieletto, insomma, il povero Verdi sarebbe dimenticato da decenni. Infine, Michieletto elogia Peter Brook, "il mio idolo per rigore, essenzialità, verità, umanità, fisicità del suo teatro". Peter Brook, quello del "Mahabharata"? Non riesco a vedere alcun rapporto con Michieletto, chiedo scusa.

 
L'errore di molti registi è di concentrarsi sul libretto invece che sulla musica. La musica deve venire prima di tutto, leggendo "Salome" (prossima regia di Michieletto) come una storia di violenza in famiglia si perde tutto il resto. Per esempio, ascoltando la "Salome" di Richard Strauss io sono sempre stato impressionato dal prigioniero nella cisterna: si potrebbe fare anche una lettura politica, ma anche questa sarebbe solo una lettura parziale. E, nella Butterfly, la ragazzina giapponese ama per davvero Pinkerton e bisogna tenerne conto, guardare Pinkerton con i suoi occhi e non con i nostri.
Mi rendo conto, invece, che forse io ragiono così perché (nel mio piccolo) sono anch'io un autore. Del tutto inedito, sia ben chiaro: non ho mai pensato di pubblicare per davvero, e mi sono reso conto fin da subito che il tempo in cui vivevo non era quello di Samuel Beckett o di Pirandello, quando il teatro era importante, e nemmeno quello in cui, a Milano, Giorgio Strehler e Paolo Grassi iniziarono la loro attività al Piccolo Teatro. Oggi il teatro, o meglio quel che ne resta, è quasi completamente in mano a tanti piccoli narcisisti che si approfittano della latitanza degli autori veri. Verdi o Molière, fate voi, non possono più interferire; e certo Michieletto avrebbe sbuffato spazientito con Samuel Beckett al suo fianco, sempre lì a dire la sua su "En attendant Godot".

 
Ho citato, all'inizio, il Boris Godunov diretto da Abbado perché in quell'apertura di stagione del 1979 ci furono violente proteste e critiche molto negative verso la regia di Jurij Ljubimov. Per me era il primo spettacolo alla Scala, e mi piacque moltissimo: un impianto fisso, una grande icona sullo sfondo e i coristi a grandi altezze, chiusi dentro celle ispirate a quelle dei manoscritti medievali. Anche i coristi protestarono molto, non si sentivano tranquilli così in alto; e direi che avevano ragione, ma il colpo d'occhio era fantastico. Ljubimov si ripeterà qualche anno dopo, sempre con Mussorgskij, la Chovanscina, e con un impianto scenico ancora più astratto. Si tratta di due drammi storici, sulla storia russa, con riferimenti precisi e indicazioni altrettanto precise sui luoghi in cui si svolgono; Ljubimov rispose che lui vedeva ogni giorno la Cattedrale di San Basilio, abitando a Mosca, e anche Ljubimov (grandissimo regista di teatro) avrebbe dovuto tenere più conto di quello che gli chiedeva il pubblico. Ma la direzione di Claudio Abbado e il grande livello della compagnia di canto misero tutti d'accordo.

 
La mia "Salome" è stata quella con la regia di Robert Wilson, stagione 1986/87: Salome come l'Alice di Lewis Carroll, o meglio come Bob Wilson vedeva Alice (di sicuro Lewis Carroll avrebbe avuto molto da dire). Anche per Wilson ci furono molte proteste, lo spettacolo era indubbiamente bello ma era davvero una Salome?
Ricordo anche le polemiche sulla Walkiria con regia di Luca Ronconi: il direttore Sawallisch si rifiutò di dirigerla, e fu sostituito da Zubin Mehta. Io non andavo ancora a teatro (credo che fosse il 1972) ma se ne parlava ancora negli anni successivi, le foto di scena erano comunque molto belle. Le Valchirie in abito da sera fine Ottocento, con i guanti lunghi di seta, mi fanno pensare che Michieletto non ha inventato niente, e sono passati quasi cinquant'anni. Mi ricordo questo fatto anche perché anni dopo ritrovai Wolfgang Sawallisch (un direttore che ho amato moltissimo) a dirigere senza proteste un allestimento molto brutto dei Maestri Cantori - ma così va la vita.

 
In conclusione, mi trovo a dover dare ragione a Zeffirelli quando diceva "scrivete cose vostre" ai registi come Michieletto, o come Livermore, Emma Dante, fate voi. Non avete il coraggio di scrivere cose vostre, di mettere in locandina "libera riscrittura di" e poi il vostro nome e cognome? Avete paura che nessuno verrebbe a vedervi, e vi nascondete dietro a Giuseppe Verdi e Richard Strauss? Il Faust è stato riscritto decine di volte, idem le tragedie storiche dell'antica Grecia, il Don Giovanni... si può riscrivere qualsiasi cosa, ma è meglio metterci la faccia, anche uno pseudonimo va bene.
Il mio consiglio, dove si può, è di comperare i biglietti in loggione o nelle gallerie. Quando una regia non mi convinceva, potevo guardare l'orchestra; e l'orchestra al lavoro è sempre un bello spettacolo da seguire. Purtroppo, nei teatri moderni il loggione e le gallerie non sempre ci sono; ma si può comunque chiudere gli occhi, i miopi possono togliersi gli occhiali, e se siete in compagnia potete sempre approfittarne per sfiorare la persona amata. Basta non fare rumore, e nessuno vi disapproverà se evitate di guardare il palcoscenico.

 
 
(nelle immagini, prese da giornali dell'epoca o da programmi di sala,
il Boris Godunov e la Chovanscina con regia di Ljubimov,
il sipario di David Hockney per "The rake's progress di Stravinskij,
Alceste di Gluck con regia di Pierluigi Pizzi,
Simon Boccanegra con regia di Giorgio Strehler,
Fetonte di Jommelli con regia di Luca Ronconi)

lunedì 2 dicembre 2019

Rapsodia op.53, Brahms


 
(...) Ad uno ad uno, nel buio, si avvicinano i fantasmi che sono i nostri compagni. La nostra squadra è una buona squadra: abbiamo un certo spirito di corpo, non ci sono novellini maldestri e piagnucolosi, e fra noi corre una ruvida amicizia. Al mattino, fra noi, è usanza salutarsi con etichetta: buongiorno Herr Doktor, salute a Lei signor Avvocato, come ha passato la notte signor Presidente? Le è piaciuta la prima colazione? Arrivò Lomnitz, antiquario di Francoforte; arrivò Joulty, matematico di Parigi; arrivò Hirsch, misterioso affarista di Copenaghen; arrivò Janek l’Ariano, gigantesco ferroviere di Cracovia; arrivò Elias, nano di Varsavia, rozzo, matto e probabilmente spia. Da ultimo come sempre, arrivò Wolf, farmacista di Berlino, curvo adunco ed occhialuto, mugolando un motivo musicale. Il suo naso giudaico fendeva l’aria torbida come la prua di una nave: lui lo chiamava, in ebraico, "Hutménu", "il nostro sigillo".
- Ecco che viene l’incantatore, l’ungitore delle scabbie, - annunciò cerimoniosamente Elias: - Benvenuto fra noi, Eccellenza Illustrissima, Hochwohlgeborener. Ha dormito bene? Quali sono le notizie della notte? Hitler è morto? Sono sbarcati gli inglesi?
Wolf prese il suo posto nella fila; il suo mugolio andò crescendo di volume, si arricchì e colorò nei toni, ed alcuni fra i suoi compagni riconobbero le battute finali della Rapsodia op. 53 di Brahms. Wolf, quarantenne, uomo chiuso e dignitoso, viveva di musica: ne era compenetrato, motivi sempre nuovi si inseguivano dentro di lui, altri sembrava aspirarli estraendoli dall’aria del campo, attraverso il suo celebre naso. Secerneva musica come i nostri stomaci secernevano fame: riproduceva con accuratezza (ma senza virtuosismi) i singoli strumenti; ora era violino, ora flauto, ora era direttore d’orchestra e tutto accigliato dirigeva se stesso.
Qualcuno ridacchiava e Wolf (Wolef, se pronunciato alla maniera yiddisch) accennò stizzito di fare silenzio: non aveva ancora finito. Cantava intento, curvo in avanti, con gli occhi al suolo; in breve, accanto a lui, spalla contro spalla, si formò un crocchio di quattro o cinque compagni, nella sua stessa posizione, come se attingessero calore da un braciere ai loro piedi. Wolf da violino si fece viola, ripetè tre volte il tema in tre varianti gloriose, e poi lo estinse in un ricco accordo finale. Si applaudì discretamente da solo: altri si unirono all’applauso, e Wolf si inchinò con gravità. L’applauso si spense, ma Elias continuò a battere le mani con violenza, gridando: - Wolf, Wolef! Viva Wolef, Rognawolef. Wolef è il più in gamba di tutti, e sapete perché?
Wolf, ritornato alle dimensioni di un comune mortale, guardava Elias con diffidenza.
- Perché ha la scabbia e non si gratta! - disse Elias. - E questo è un miracolo: benedetto sii Tu, Signore Iddio nostro, Re dell’Universo. (...)
Wolf saltò indietro, cercando simultaneamente di respingere Elias: ma questi, che era più basso di Wolf di tutta la testa, spiccò un balzo e gli si avvinghiò al collo: tutti e due crollarono a terra, nel fango nero; Elias era di sopra, e Wolf boccheggiava mezzo soffocato. Alcuni cercarono di interporsi, ma Elias era forte, e stava abbarbicato all’altro con braccia e gambe, come un polipo. Wolf si difendeva sempre più debolmente, tentando di colpire Elias con calci e ginocchiate sferrati alla cieca.
Per fortuna di Wolf, arrivò il Kapo, somministrò salomonicamente pedate e pugni ai due aggrovigliati al suolo, li separò e mise tutti in fila: era l’ora di partire in marcia per il lavoro. L’incidente non era di quelli memorabili, ed infatti fu presto dimenticato, ma il nomignolo Rognawolf ( "Krätzewolf ") aderì tenacemente al personaggio, incrinandone la rispettabilità, ancora molti mesi dopo che della scabbia era guarito, ed esonerato dalla carica di ungitore. Lui lo portava male, soffrendone visibilmente, e contribuendo così a non lasciarlo svanire.
 
Venne infine una timida primavera, ed in uno dei primi periodi di sole ci fu un pomeriggio di domenica senza lavoro, fragile e prezioso come un fiore di pesco. Tutti lo passarono dormendo, i più vitali scambiandosi visite da baracca a baracca, o studiandosi di rammendarsi gli stracci e di attaccarsi i bottoni con filo di ferro, o limandosi le unghie contro un ciottolo. Ma da lontano, coi capricci del vento tiepido e odoroso di terra umida, si sentiva venire un suono nuovo, un suono così improbabile, così inatteso, che tutti levarono il capo per ascoltare. Era un suono esile come quel cielo e quel sole, e veniva di lontano sì, ma dall’interno del recinto del campo. Alcuni vinsero la loro inerzia, si misero in caccia come segugi, incrociando con passo impedito e con le orecchie tese: e trovarono Rognawolf, seduto su una pila di tavole, estatico, che suonava il violino. Il "suo sigillo" vibrava teso al sole, i suoi occhi miopi erano perduti al di là del filo spinato, al di là del pallido cielo polacco. Dove avesse trovato un violino era un mistero, ma i veterani sapevano che in un Lager può capitare tutto: forse l’aveva rubato, forse noleggiato per pane.
Wolf suonava per sé, ma tutti quelli che passavano si fermavano ad ascoltare con un’espressione golosa, come di orsi che fiutino il miele, avidi timidi e perplessi. A pochi passi da Wolf stava Elias, sdraiato con la pancia al suolo, e lo fissava quasi incantato. Sul suo volto da gladiatore ristagnava quel velo di stupore contento che si nota qualche volta sul viso dei morti, e fa pensare che veramente abbiano avuto, per un istante, sulla soglia, la visione di un mondo migliore.
(Primo Levi, Il nostro sigillo, da "Lilit e altri racconti", edizione Einaudi 1981, pagine 30-34)

qui per la Rapsodia op.53 di Brahms

... Ist auf deinem Psalter,
Vater der Liebe, ein Ton
seinem Ohre vernehmlich
so erquicke sein Herz!
(...)
(è sul Tuo libro dei salmi, Padre dell'Amore, un tono percettibile alle sue orecchie; dunque rianima il suo cuore! Apri lo sguardo offuscato sulle migliaia di fonti vicino all'assetato, nel deserto.)
(testo di Wolfgang Goethe, da Harzreise im Winter)



lunedì 18 novembre 2019

L'Opera di Sydney

 
Sul supplemento di Repubblica di venerdì 8 novembre 2019 trovo una lunga intervista al direttore artistico dell'Opera di Sydney, Lyndon Terracini; quello che leggo da un lato mi fa piacere, perché è bello sapere che l'opera lirica va avanti e trova nuovo pubblico, da un altro lato mi dispiace e mi irrita.
Provo a mettere ordine nelle mie sensazioni seguendo le pagine del giornale: Lyndon Terracini ha 69 anni, è nato a Sydney ed è imparentato con Umberto Terracini, presidente dell'Assemblea Costituente e antifascista, dunque un'ottima nascita. Ha studiato da baritono, e ha vissuto per lungo tempo a Faggeto Lario. L'Opera di Sydney è un grande teatro, inaugurato nel 1973; si tratta di una specie di monumento nazionale australiano, è un edificio famoso e celebratissimo, quindi non mi dilungo. La notizia è questa: sotto la gestione di Lyndon Terracini l'Opera di Sydney fa profitti, e ha raggiunto un livello artistico notevole.
 

La prima frase che ritaglio è questa: « L'Italia è la culla della lirica, anche se arrivano voci allarmanti sulle sorti dei teatri d'opera.» Questo purtroppo è vero, se i grandi teatri (Scala, Fenice, Roma, Firenze) sono ben finanziati, non altrettanto si può dire per i teatri storici delle città meno grandi. Non solo: in Italia chi si interessa all'opera lirica viene in qualche modo bollato come persona strana. Quante volte mi sono sentito dire "ma come fa a piacerti quella roba lì", e sentirmi contrapporre un vasco, un rapper, una Ciccone. A vent'anni ero positivo, mi dicevo che se uno come me era arrivato a capire la grande musica la strada era aperta per tutti; e invece oggi (Nuovo Millennio) sento ogni giorno definire "grande musica" le canzoni della tv degli anni '60 e "musicologo" chi si occupa del festival di Sanremo. Abbiamo ancora tanti ottimi musicisti, grazie al Cielo, ma così va in Italia: provate a seguire qualche quiz in tv, per fare solo un piccolo esempio, e ad ascoltare cosa si chiede ai concorrenti alla voce "musica". Terracini prosegue dicendo che il futuro dell'opera lirica è in Cina e nei paesi limitrofi, come la Corea; e aggiunge che in Cina "costruiscono teatri favolosi e tecnologicamente avanzatissimi e hanno formato una invidiabile scuderia di artisti". Aggiunge che "oggi il più grande baritono verdiano è il mongolo Amartuvshin Enkhbat (trionfale il suo Nabucco a Parma)".
 
A inizio intervista, Lyndon Terracini dice una gran bella frase: "Noi a teatro vogliamo la gente comune, l'élite ce l'abbiamo già", e io sono contento perché penso a Claudio Abbado, a Paolo Grassi, a Giorgio Strehler, che dicevano la stessa cosa cinquant'anni fa. Ma, proseguendo nell'intervista, mi accorgo che non è proprio la stessa cosa. Se Claudio Abbado e Maurizio Pollini, cinquant'anni fa, portavano la grande musica nelle scuole e nelle fabbriche, a Sydney invece Lyndon Terracini apre alla musica leggera: «... il 50 per cento dei profitti proviene dal box office della lirica, il dieci da donatori e sponsor e il 20 da fondi governativi; il resto viene dal musical, che richiama un pubblico vastissimo» . L'autore dell'articolo, Giuseppe Videtti, aggiunge che Lyndon Terracini "inorridisce quando gli raccontiamo che la Scala ha rifiutato Veronica Ciccone": ma alla Scala hanno fatto bene, una come la Ciccone è meglio se si esibisce allo stadio. Non per altro, ma perché la Scala fa duemila posti e il Meazza invece arriva tranquillamente a ottantamila, non mi sembra un'idea geniale se si mira all'incasso. Oltrettutto, la Ciccone canta con il microfono e usare gli amplificatori alla Scala non è bello: lo dico per esperienza diretta, io ho ascoltato Carmelo Bene alla Scala, e l'amplificazione disturbava moltissimo e copriva l'orchestra nel Manfred di Schumann - uno dei miei peggiori ricordi in teatro (quella sera con Carmelo Bene, intendo).

 
Lyndon Terracini ha un'uscita azzardata: « Sappiamo tutti che il musical non è poi così lontano da Puccini». Qui non ci siamo, il musical è lontanissimo da Puccini, caso mai somiglia un po' all'operetta per via dell'alternanza fra cantato e parlato. In Puccini è tutto cantato, e il livello musicale è molto più alto; ma anche se si ascolta Lehar nell'originale, con i grandi cantanti e i grandi direttori, la differenza qualitativa con il musical è molto grande e non percepirla mi sembra strano. In cartellone a Sydney, comunque, ci sono South Pacific ed Evita.
 
 
Maurizio Scardovi, presidente di Punto Opera Artist Management (una specie di Mino Raiola?) aggiunge: « La Scala in mano a uno come Terracini non solo avrebbe risolto i suoi problemi, ma potrebbe permettersi di finanziare un secondo teatro». Mi viene da pensare al Lirico, chiuso da un'eternità, o al Teatro degli Arcimboldi, che ha meno di vent'anni: siamo sicuri che a Milano si possa fare la stessa politica che si fa Sydney? Io la vedo dura... Lo stesso Scardovi chiude entusiasta l'articolo:« Venire in Italia? Non glielo permetterebbero mai - conclude con una risata Maurizio Scardovi - dimostrerebbe che col teatro si può guadagnare. Sacrilegio!». Mah.
L'autore dell'articolo, Giuseppe Videtti, insiste: "Non c'è nulla che Terracini consideri audace o irrispettoso quando si tratta di trovare fondi", ma non è una novità. questa cosa la disse già Badini, sovrintendente della Scala nel periodo subito dopo Paolo Grassi (primi anni '80) aggiungendo "sulle locandine ci scrivo anche Hatù" (Hatù era una famosa marca di preservativi, non so se esista ancora).
Ma, fin qui, passi. Mi ha recato molto dispiacere leggere cosa scrive subito dopo Videtti: "un teatro che a differenza delle nostre bomboniere barocche cariche di velluti e di cristalli, è una struttura all'avanguardia". Videtti di solito si occupa di musica leggera, su Repubblica; non so che preparazione abbia, ma dire queste parole sui teatri italiani mi sembra di una superficialità e di una grossolanità impossibile da accettare. L'opera italiana è nata in quei posti lì, a Sabbioneta, a Mantova... Scrivo un altro "mah", giusto per non dire tutto quello che penso (che si fa, li buttiamo giù e chiamiamo un archistar per farci la diretta del Festival di Sanremo?).

 
« Non creda che chiunque metta piede qui dentro acquisti un biglietto per l'opera, il prezzo è alto, si aggira sui 350 dollari australiani (più di 215 euro)» dice ancora Lyndon Terracini, e spiega che "il teatro è sempre aperto, chiude soltanto a Natale e a Pasqua, seicento recite l'anno". Io alla Scala sotto la gestione di Abbado andavo in loggione, con tanti altri, e spendevo meno che andare al cinema. Chissà se c'è l'equivalente del loggione, all'Opera di Sydney, o se si punta tutto solo su chi può spendere e spandere: l'articolo non lo dice, a me piacerebbe saperlo.
Apprendo invece che dal 2012 è aperta "Opera on Sydney Harbour", palcoscenico aperto sulla baia nei mesi estivi, tremila posti, cinque ristoranti: "qui nessuno si scandalizza se alla prima di una Butterfly outdoor ci sono ragazzi con un hamburger e una pinta di birra". Anche questa non è che sia proprio una novità: si sa che alla Scala, anche al tempo di Rossini, il primo introito era il gioco d'azzardo; poi per fortuna hanno smesso e si è andati a teatro solo per la musica. Non mi sembra un gran biglietto da visita: magari, dopo hamburger e birra, anche un bel rutto?
Aggiunge ancora Videtti: "cartellonistica e programmi di sala e spot tv sono modernissimi e cinematografici: scelta irrispettosa si direbbe da noi, ma questa è la chiave con cui Terracini ha aperto ai giovani le porte dell'opera". Nel dettaglio, si parla di "un manifesto con Faust en travesti": ancora? Mamma mia, che noia. Nazisti, mafiosi, travestiti... ne abbiamo visti troppi negli ultimi decenni, sono diventati la regola e secondo me andrebbero banditi dai teatri d'opera, a meno che non siano esplicitamente richiesti dal compositore. Certo, se si vuol mettere in scena "The rocky horror picture show", tutto fa brodo. Sempre per tornare alla mia esperienza, negli anni '70 le porte ai giovani le avevano aperte Abbado, Pollini, Grassi, Strehler, Sinopoli, Berio, e tanti altri; e con ben altro livello culturale.
A dare un tocco di colore all'articolo ecco l'inevitabile citazione per Alfredo's "il ristorante italiano il cui proprietario è la memoria storica della lirica in Australia", un napoletano da 40 anni a Sydney che fu il cuoco di Pavarotti - così a occhio direi che Pavarotti era capace di farsi da mangiare da solo, o in famiglia, e in ogni caso era cucina emiliana; comunque sia, può darsi, ma non è che sia un'informazione di cui sentivo il bisogno. Temo che Alfredo's sia fuori dalla portata delle mie tasche, così come i biglietti della Sydney Opera House.
 
Dato che si affaccia sull'oceano, l'Opera di Sydney non poteva che essere così, come una vela gonfia o un'astronave aliena (cito ancora Videtti); però dispiace veder definire in questo modo i nostri teatri (come il Farnese di Parma, che vedete nelle immagini di questo post), grandi capolavori di acustica e di architettura L'autore dell'articolo probabilmente è più abituato ai concerti amplificati, a vasco a san Siro; io tenderei ad assolvere Terracini, che si direbbe un ottimo manager, ma ho invece molte riserve su quello che scrive Videtti e su quello che dice Scardovi.
Sempre rimanendo nel mio piccolo, e pensando alla Scala, continuo a pensare che il palcoscenico che andava bene a Giuseppe Verdi e a Puccini non aveva bisogno di essere ampliato, come è stato fatto nel 2000. Ovviamente il restauro è stata un'ottima cosa, ma qui si è esagerato. Metto qui sotto una foto di come era la Scala quando l'ho conosciuta, senza la "tag" dell'archistar che ha lasciato il suo segno nel palazzo del Piermarini, e con i colori ottocenteschi che videro ogni giorno Verdi e Puccini. Per me quel "restyling" della Scala è stata la perdita di un'aura, come avrebbe detto Elemire Zolla (vedi "Aure", ed. Marsilio) ma forse ai Videtti va bene anche così, e ormai comunque è andata, amen: mi rimane solo uno sfogo su questo piccolissimo blog, poi nulla.

(La Scala, anno 1968)

 
 
 
(nelle immagini, il cinquecentesco Teatro Farnese a Parma;
le foto a colori le ho prese molto tempo fa e non trovo più i link, me ne scuso;
la panoramica in bianco e nero viene dal film di Valerio Zurlini
"La ragazza con la valigia", con Romolo Valli e Claudia Cardinale)
(la foto della Scala nel 1968 viene da una vecchia enciclopedia)

 


venerdì 15 novembre 2019

Farinelli voce regina


Farinelli voce regina (1994) regia di Gerard Corbiau. Scritto da Andrée e Gerard Corbiau e da Marcel Beaulieu. Fotografia di Walther van den Ende. Musiche di Haendel, Hasse, Porpora Interpreti: Stefano Dionisi (Carlo Broschi detto Farinelli), Enrico Lo Verso (Riccardo, fratello di Farinelli), Jeroen Krabbé (Haendel), Omero Antonutti (Nicola Porpora), Elsa Zylberstein, Caroline Cellier, Marianne Basler, e molti altri. Durata: 110 minuti

Così dice di Farinelli la Garzantina della Musica:
«Broschi Carlo, detto Farinello o Farinelli (Andria 1705 - Bologna 1782), sopranista. Esordì a Napoli nel 1720 con la serenata "Angelica e Medoro" di Porpora. Cantò fino al 1734 nei maggiori teatri italiani, quindi a Londra e infine, dal 1737 al 1759, fu al servizio della corte di Spagna. Voce di enorme estensione (dal do2 al do5), bellissima di timbro, dolcissima, potente, fu anche un incomparabile virtuoso e, al tempo stesso, un interprete commovente nel genere patetico. Cantava anche da contraltista, vantava una splendida figura scenica e un'educazione musicale d'eccezione. Si può guardare a lui come al più completo cantante di tutta la storia dell'opera.»
Un altro Farinelli è Giuseppe, all'anagrafe Giuseppe Francesco Finco (1769-1836) che scelse il nome d'arte in omaggio a Carlo Broschi che lo aiutò agli inizi della sua carriera.

Quello che la Garzantina non dice, ma che lascia intuire, è che Carlo Broschi detto Farinelli era un castrato. Una barbarie, vista dall'oggi, ma una pratica comune in tempi in cui la vita di un bambino valeva poco o niente. Bambino, perché l'operazione andava fatta prima della muta della voce: qualcosa che oggi fa star male al solo pensiero, ma una pratica che durò tranquillamente fino alla fine del Settecento e fu spazzata via solo dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese. La pratica di castrare i bambini dotati per il canto era antica, e fu purtroppo incoraggiata dalla chiesa cattolica romana, secondo la quale era sconveniente che le donne cantassero in pubblico. I castrati (è la dizione usata comunemente, chiedo scusa ma non si può evitare) ebbero grande successo, anche enorme come nel caso del Farinelli (vera star a livello europeo) e il loro posto fu poi preso, a inizio Ottocento, da tenori che prendevano gli acuti in falsetto (o falsettone, secondo una dizione molto usata). Grandi compositori, come Mozart e Rossini, non scrissero mai per i castrati.
Da qui nasce anche la leggenda del "do di petto": a un certo punto i tenori cominciarono a emettere le note acute non più in falsetto ma in piena voce, la voce umana naturale. In tempi recenti, tenori come Chris Merritt e Rockwell Blake ripristinarono la vocalità di primo Ottocento, con ottimi risultati; non è invece possibile riprodurre l'esatta vocalità dei castrati - grazie al Cielo, viene da dire. C'è una imprecisione nelle righe della Garzantina: Farinelli non era un sopranista o contraltista come li intendiamo oggi, cioè cantanti in falsetto, ma quella di soprano (o di contralto) era la sua voce naturale. Oggi vanno molto di moda i cantanti in falsetto, ma si tratta a tutti gli effetti di un falso storico; per cercare le voci davvero vicine a quella di un Farinelli è molto meglio rivolgersi a cantanti donne, gli esempi sono molti e di alto livello, basterà citare Marilyn Horne. Del resto, Georg Friedrich Haendel, che fu anche impresario, scritturava per le stesse parti sia castrati che donne: la partitura rimane invariata, la scelta dipendeva dalla bravura delle cantanti (anche in ruoli maschili) e dalla loro disponibilità in quel momento.


Che io sappia "Farinelli voce regina" è il secondo film dedicato ai cantori evirati, ma non ho mai fatto ricerche precise in proposito. Il primo, che circola spesso sulle reti televisive, è il pessimo "Le voci bianche" (ne ho parlato qui), molto volgare e grossolano, del tutto inattendibile. Con il film di Corbiau le cose vanno un po' meglio, ma non tanto: un film serio su queste pratiche barbare è ancora da scrivere. Si passa da un eccesso all'altro: se in "Le voci bianche" i castrati diventavano tutto d'un tratto effeminati, qui Farinelli è un "tombeur des femmes" in collaborazione col fratello, un vero sciupafemmine.
Va un po' meglio con la ricostruzione storica, molto ben effettuata in quanto a scene e a costumi; ma anche qui ci sarebbe molto da dire, e per brevità copio e incollo da wikipedia.it :
« Pur presentandosi come una biografia di Farinelli, il film presenta varie inesattezze storiche: il ruolo del fratello maggiore di Farinelli, il compositore Riccardo Broschi, è notevolmente enfatizzato, mentre quello del suo primo maestro, Nicola Porpora, lasciato in secondo piano. Il compositore sassone Georg Friedrich Händel, interpretato da Jeroen Krabbé, viene tratteggiato come un nemico di Farinelli e una figura negativa, mentre nella realtà dirigeva semplicemente la Royal Opera House, il teatro rivale dell'Opera della Nobiltà, in cui si esibiva Farinelli. Il periodo passato dal cantante in Spagna alla corte del re Filippo V viene quasi ignorato. Inoltre, un elemento centrale del film sono le presunte avventure erotiche di Farinelli, che non hanno alcuna base storica e sono anzi altamente improbabili; infine, Farinelli, al contrario di quello che lascia presagire il film, morì solo e senza alcun erede. »

Alla mia prima visione di questo film mi ero segnato un breve appunto:
« "Farinelli voce regina" è buono solo quando appare Haendel (un ottimo Jeroen Krabbe), verso il finale. Ma poi è talmente pieno di anacronismi e di scemenze (psicoanalisi nel '700?) da riuscire insopportabile. Peccato, perché non sarebbe scritto male; è ben fatto, belle scene e costumi, buona ricostruzione storica. Gli attori sono bravi, mi segno Elsa Zylberstein che interpreta Alexandra, ma il risultato poteva e doveva essere migliore. » (anno 2001)
Aggiungo che non ho alcuna voglia di rivedere "Farinelli voce regina", l'avevo trovato irritante e mi irrita ancora nel ricordo, soprattutto perché non mi piace l'idea che si possa scherzare su queste tragedie.

Merita una segnalazione la voce di Farinelli per come è stata ricostruita nel film, un mix costruito al computer con le due voci del falsettista Derek Lee Ragin e del soprano (donna) Ewa Małas-Godlewska. E' una cosa che può divertire, ha un suo interesse, ma le parti scritte per Farinelli sono state comunemente interpretate da donne: la più famosa è Marilyn Horne, ma ce ne sono tante altre. La stessa Maria Callas, che però scelse un repertorio completamente diverso, avrebbe potuto tranquillamente eseguire le parti scritte per voci di castrato.
Nel film si vedono due musicisti importanti: oltre a Haendel, che non ha bisogno di presentazioni e che è interpretato da Jeroen Krabbé, si tratta di Nicola Antonio Porpora (napoletano, 1686-1768) compositore tra i più importanti della sua epoca, di fama europea, maestro di Conservatorio per molti musicisti tra i quali anche i castrati Caffarelli e Farinelli; a Vienna fu anche maestro per Franz Joseph Haydn. Nicola Porpora è interpretato da un grande attore italiano, Omero Antonutti.
 

Le musiche che si ascoltano nel film:
- Riccardo Broschi: "Ombra fedele anch'io", e "Qual guerriero in campo armato" dall'opera Idaspe (1730) (Ewa Malas-Godlewska e Derek Lee Ragin)
- Riccardo Broschi: "Son qual nave ch'agitata" e "Se al labbro mio non crede" dall'opera "Artaserse" scritta con Johann Adolf Hasse (Londra 1734). (Ewa Malas-Godlewska e Derek Lee Ragin)
- Johann Adolf Hasse: "Generoso risvegliati, o core" dall'opera "Cleofide"(Alessandro nell'Indie) (Ewa Malas-Godlewska e Derek Lee Ragin)
- Johann Adolf Hasse: Artaserse (Ouverture) (Ensemble Les Talens Lyriques, dir. Christophe Rousset )
- Georg Friedrich Haendel: "Lascia ch'io pianga", "Cara sposa", e "Venti, turbini" dall'opera "Rinaldo" (Ewa Malas-Godlewska e Derek Lee Ragin)
- George Friedrich Haendel: Rinaldo (Ouverture) (Ensemble Les Talens Lyriques, dir. Christophe Rousset )
- Nicola Porpora: "Alto Giove, è tua grazia" dall'opera "Polifemo" (Londra, 1735) (Ewa Malas-Godlewska e Derek Lee Ragin)
- Nicola Porpora: "Alto Giove", arrangiamento strumentale di Christophe Rousset (Ensemble Les Talens Lyriques, dir. Christophe Rousset)
- Giovanni Battista Pergolesi: Salve Regina (Ewa Malas-Godlewska e Derek Lee Ragin)
- Alessandro Melani e Alessandro Scarlatti: "Chant Trompette" (Margarida Natividade e Françoise Renson; Pierre de Boeck percussioni; Luc Capoulissez tromba)

 

 
(le immagini vengono dal sito www.imdb.com )

 
 

sabato 2 novembre 2019

Estasi (Franz Liszt 1959)


 
Song without end (Estasi, 1959). Regia di Charles Vidor (terminato da George Cukor). Scritto da Oscar Millard. Fotografia di James Wong Howe. Musiche di Liszt, Chopin, Wagner, Verdi, Beethoven, Berlioz, Mendelsson, Haendel. Interpreti: Dirk Bogarde (Liszt), Genevieve Page (contessa Marie d'Argoult), Capucine (principessa Carolyne Wittgenstein), Alexander Davion (Chopin), Patricia Morison (George Sand), Erland Erlandsen (Thalberg), Lyndon Brook (Wagner), Ivan Desny (principe Nicola), Martita Hunt (granduchessa), Lou Jacobi (Potin, agente di Liszt), Marcel Dalio (Chelard, direttore teatro Weimar), Katherine Squire (madre di Liszt), e molti altri. Durata: 2 ore e 10 minuti.
 
"Song without end" (Estasi, nella strana titolazione italiana) è una biografia di Franz Liszt, realizzata secondo i canoni hollywoodiani ma non priva di interesse. A differenza del precedente "Rapsodia", Charles Vidor (o chi per lui) stavolta sceglie bene gli attori: non più gli improvvisati Vittorio Gassman e John Ericson ma l'inglese Dirk Bogarde, che non somiglia per niente a Liszt ma riesce a essere più che credibile come pianista e direttore d'orchestra. Forse Gassman avrebbe reso meglio il carattere di Liszt, ma aveva ormai lasciato Hollywood da tempo. E' l'ultimo film di Charles Vidor, che morì durante le riprese; il film fu terminato da George Cukor.
Come è normale per un film di Hollywood, l'accento viene messo soprattutto sulle storie d'amore; ma c'è comunque molta musica ben eseguita, e i tagli sui brani musicali sono stati effettuati in maniera intelligente. Sono molto belle anche le locations, si direbbe che siano i luoghi originali ma purtroppo non ho trovato indicazioni in proposito.
 
 
Franz Liszt, o meglio Ferenc Liszt, nasce in Ungheria nel 1811; comincia a fare concerti poco più che bambino, e in breve tempo raggiunge una grande fama in tutta Europa. La fama di Liszt è paragonabile a quella di una rockstar di oggi, quindi non sono esagerati gli applausi e i trionfi che si vedono nel film; le cronache di quel periodo ci parlano spesso di questi entusiasmi, sia per strumentisti come Liszt e Paganini che per i cantanti d'opera (maschi e femmine).
Il film si apre dopo il 1833, quando Liszt fugge in Svizzera con la contessa Marie d'Agoult (interpretata da Genevieve Page); hanno tre figli, vivono insieme fino al 1839 e si lasceranno definitivamente nel 1844.
Qualche indicazione biografica, presa per comodità da wikipedia.it : Marie (1805-1876, maggiore di sei anni rispetto a Liszt) è contessa d'Agoult per nascita, e moglie del visconte di Flavigny, che abbandonerà per seguire Liszt. Scrittrice e saggista con lo pseudonimo Daniel Stern, fu amica di Mazzini; ebbe due figlie dal visconte, e tre figli da Liszt: un maschio e due femmine. L'ultima figlia di Liszt e di Marie d'Agoult è Cosima, che diventerà moglie di Richard Wagner (quasi coetaneo di Liszt) e madre dei suoi figli. Liszt terminerà la sua vita a Bayreuth, dove vivevano Cosima e Wagner con i loro figli.
 
Carolyne Iwanowska (1819-1887, interpretata dalla modella e attrice Capucine) visse con Liszt per quarant'anni, continuando a frequentarlo anche dopo che Liszt si fece terziario francescano. Il loro incontro avviene nel 1847, passano quindi tre anni dalla fine della relazione di Liszt con Marie d'Agoult (nel film sembra invece che Liszt lasci Marie per Carolyne). Liszt e Carolyne vissero insieme dal 1848, dopo che Carolyne (come già fece Marie d'Agoult) aveva lasciato il marito, il russo principe Wittgenstein. Era cattolica, nata Iwanowska, in una città della Polonia che oggi fa parte dell'Ucraina ma all'epoca era Russia.
Nel film si sottolinea che Marie era agnostica, mentre Carolyne era molto religiosa.
 
All'inizio del film siamo in Svizzera, Liszt ha poco più di vent'anni e Marie gli dice che la sua musica è troppo religiosa; la principessa (più avanti) invece lo spingerà verso la religione. Liszt si è rifugiato in Svizzera dopo la fuga con Marie d'Agoult, che ha lasciato il marito e due figlie per seguirlo. Liszt si è ritirato dalle scene, Marie lo spinge a comporre musica sua. A questo punto arrivano gli amici Chopin e George Sand, insieme all'impresario Potin. Marie è contrariata, vuole che Liszt componga, non che faccia concerti; teme che gli amici lo possano riportare alla vita di prima e infatti così accadrà. Potin racconta a Liszt che a Parigi c'è una nuova stella del pianoforte, Thalberg; lo stimolo della concorrenza con Thalberg spingerà Liszt a tornare a suonare, deludendo Marie. Nella notte, i tre amici e Potin escono in strada cantando "sur le pont d'Avignon" ; poi incrociano un prete e Liszt va a suonare l'organo in chiesa (un brano di Johann Sebastian Bach). Marie li raggiunge, irritata: sono le quattro di notte, stai svegliando tutti. Bello il dettaglio di Potin che aziona il mantice per l'organo a canne.
 
Al minuto 13 Liszt è a Parigi; ha voluto che Potin gli fissasse il concerto nello stesso giorno e allo stesso orario di quello di Thalberg. L'effetto voluto è raggiunto: la sala dove suona Thalberg è quasi vuota, da Liszt c'è il pienone ed è lo stesso Thalberg a mandare i presenti al concerto di Liszt. Sigismund Thalberg (nato a Ginevra, 1812-1871) fu pianista e compositore; la Garzantina della Musica accenna alla sua rivalità con Liszt, erano entrambi virtuosi e spettacolari. Va anche ricordato che erano i primi anni in cui circolavano i pianoforti moderni, certi virtuosismi prima di quell'epoca non erano possibili. Al minuto 16 Liszt suona la "campanella" di Paganini, brano famosissimo, da lui trascritto dall'originale per violino.

 
Al minuto 26 Liszt è a Vienna e suona Beethoven (Sonata n.8, "Patetica"); alla fine si concede ai fans adoranti, soprattutto donne. Nei camerini incontra Wagner (quasi suo coetaneo, ma all'epoca quasi sconosciuto) ma lo snobba mandandolo dal suo agente.
Al minuto 30 bello il dettaglio della tastiera di legno per gli esercizi, sulla carrozza in viaggio verso la Russia. Le cronache raccontano che anche Mozart ne usava una simile, era l'unico modo per tenersi in esercizio durante i lunghi viaggi tra un concerto e l'altro.
A Pietroburgo, dallo zar in una sala privata, Liszt inizia con Beethoven ("chiaro di luna"), che interrompe perché lo zar arriva in ritardo; poi riprende il concerto su invito di Carolyne.
Al minuto 36 Liszt è a Dresda e suona una fantasia tratta dal Rigoletto di Giuseppe Verdi; lo portano in trionfo per le strade. Più tardi, al minuto 47. Liszt si trova per caso ad ascoltare le prove dell'opera di Wagner "Rienzi"; ne è entusiasta ma Wagner irritato gli ricorda il loro primo incontro, quando non aveva nemmeno voluto dare un'occhiata alla partitura.

 
Al minuto 51 Liszt è a Kiev, in concerto; poi va a suonare l'organo in chiesa. La musica suonata nella cattedrale è di Haendel, un arrangiamento della famosa aria dal "Serse", con coro.
A 1h02 Liszt è in concerto a Odessa; alla fine chiude il piano e annuncia che si ritira, vuole comporre. Ad attenderlo c'è la principessa Carolyne, che lo consiglia di andare a Weimar dove la Granduchessa (sorella dello zar) gli affiderà la direzione musicale del teatro.
A 1h10 Liszt è a Weimar, "teatro e orchestra mediocri, di provincia" come sottolineerà Marie, tornata a trovarlo con i figli. A 1h13 Liszt suona Wagner al pianoforte ("O du, mein holder Abendstern" dall'opera Tannhäuser), poi arriva Marie, inaspettata.

 
A 1h19 c'è la rivoluzione a Vienna (i moti del 1848) e Liszt vi corre da Weimar perché a Vienna c'è Carolyne. Insieme vanno a casa della mamma di Liszt, dove però c'è anche Marie con i tre figli. Qui Liszt viene però acclamato dai suoi fans, e a 1h25 c'è la festa con gli zingari, che sfocia nella sinfonia fantastica di Berlioz (marcia Rakoczy).
A 1h30 siamo tornati a Weimar, dove Liszt dirige Wagner. Qui c'è un dialogo davvero curioso, direi perfino una stupidaggine, perché si ascolta Wagner dire che è fuggito da Dresda "per un clarinetto", cioè un litigio per uno strumentista con il sovrintendente. La realtà storica è che Wagner partecipò ai moti del 1848; era amico dell'anarchico Bakunin e salì sulle barricate insieme ai rivoltosi. Wagner fu messo al bando dal Re di Prussia, e per molti anni non potè tornare nei paesi tedeschi; solo l'amicizia con Ludwig II di Baviera consentirà a Wagner di tornare a Dresda, molti anni dopo. E' comunque vero che Liszt protesse a aiutò Wagner; non solo, Liszt diventerà il suocero di Wagner quando Wagner (quasi coetaneo di Liszt, aveva solo due anni di meno) sposerà la sua figlia più giovane, Cosima. Si può far notare che anche Cosima, come sua madre Marie, abbandonerà il marito per legarsi ad un musicista; ma Cosima in questo film non c'è, i figli di Liszt erano ancora bambini e sono rimasti fuori dalla sceneggiatura.

 
A 1h34 Liszt dirige il "Tannhäuser" di Wagner a Weimar; vediamo in scena il famoso coro dei pellegrini. Nell'opera di Wagner, il peccatore Tannhäuser va a Roma per avere la grazia dal Papa; nel film è Carolyne ad andare a Roma dal papa, per chiedere l'annullamento del suo matrimonio con il principe russo (Carolyne era cattolica, nata in Polonia)
A 1h47 Liszt è in concerto a Roma, prima del matrimonio che non si farà.
Altre note prese durante la visione: 1) tutte le immagini d'epoca mostrano Liszt con i capelli lunghi; nel film non è così e Dirk Bogarde non somiglia affatto a Liszt, ma è comunque molto bravo e credibile. 2) quando Liszt propone a Carolyne il coro dal Lohengrin di Wagner per le nozze, cioè una delle due marce nuziali più utilizzate nei matrimoni (l'altra è di Mendelssohn) sarebbe stato il primo a farlo; ma Carolyne vuole solo musiche di Liszt, e poi non ci sarà il matrimonio. 3) gli applausi e trionfi erano veri, regista e sceneggiatori per una volta non stanno inventando: Liszt era come una rockstar di oggi, come lui Paganini e molti cantanti d'opera, maschi e femmine 4) si citano spesso i figli di Liszt e di Marie, ma non si vedono mai: una di loro è Cosima, che sposerà Richard Wagner. 5) la vita di Liszt non finisce in un convento, diventerà terziario francescano ma continuerà a vivere nel mondo, spesso come ospite a casa di Wagner e di Cosima a Venezia e a Bayreuth. 6) Dirk Bogarde è molto credibile, ma non so dire se abbia studiato da pianista; il pianista che ascoltiamo è Jorge Bolet. 7) l'amico Felix del film non è Mendelssohn; nel film manca anche Robert Schumann. 8) abbastanza incomprensibile il titolo italiano, anche perché "Estasi" è un film molto famoso degli anni '30, con Hedy Lamarr.
I brani eseguiti nel film, da www.imdb.com :
- Franz Liszt: Liebestraum, nr 3, op. 62; Consolation In D Flat; La Campanella (trascrizione da Niccolò Paganini), Fantasia su temi dal Rigoletto di Verdi (trascrizione di Giovanni Daelli, 1855);
Concerto per pianoforte e orchestra No. 1 In E Flat And Hungarian Fantasy (Medley); Un Sospiro (Excerpt); Les Preludes (Excerpt)
Jorge Bolet (pianoforte); The Los Angeles Philharmonic dir. Morris Stoloff
- Felix Mendelssohn-Bartholdy: Rondò Capriccioso (Part II)
- Ludwig van Beethoven: Sonata per pianoforte n.8 op. 13, c-moll, Pathétique  e Sonata per pianoforte n.14 op.27 " chiaro di luna"
Jorge Bolet (piano)
- Richard Wagner: Ouverture dall'opera "Rienzi"; "O du, mein holder Abendstern" e Coro dei pellegrini dall'opera Tannhäuser.
( "Song Without End" Chorus, The Los Angeles Philharmonic conducted by Morris Stoloff )
- Héctor Berlioz: Rakoczy March (Sinfonia fantastica)
The Los Angeles Philharmonic conducted by Morris Stoloff
- Georg Friedrich Haendel: Largo: Ombra mai fu dall'opera "Serse" (arrangiamento per organo e coro)  (The "Song Without End" Chorus )
- Johann Sebastian Bach: Passacaglia e fuga per organo, BWV 582, c-moll
(organista non indicato)

mercoledì 2 ottobre 2019

Piano di evasione

 
(...) il mio male si aggravò fino a diventare insopportabile; mi decisi a fare io stesso il passo che, per motivi morali, avevo fatto compiere ai detenuti Marsillac, Favre e Deloge; il passo che, per motivi morali fondati sulle menzogne che lei mi disse, avevo tentato di far compiere anche a lei. Da questo momento cesso di essere un uomo di scienza per diventare oggetto della scienza; da questo momento non proverò più dolore, sentirò (sempre) l'inizio del primo movimento della Sinfonia in mi minore di Brahms. (la n.4) A questa lettera allego la spiegazione delle mie scoperte e i mezzi per applicarle, e il mio testamento.
Adolfo Bioy Casares, "Piano di evasione", pag.126 (cap.48) ed. Bompiani 1974, traduzione Gianni Guadalupi (Plan de evasiòn, 1945)

Il soggetto del libro parte probabilmente dalla sinestesia, cioè dalla capacità di abbinare colori e note musicali; si immagina che sia possibile combinare in tal modo tutti i cinque sensi, cioè toccare da lontano, vedere attraverso il tatto, eccetera. A realizzare tutto questo non è uno scienziato più meno pazzo, come nell'Isola del dottor Moreau di H.G.Wells, ma il governatore del carcere dell'Isola del Diavolo, la Caienna (il romanzo è del 1945, quindi molto prima di Papillon che uscirà solo nel 1970). Il "piano di evasione" che dà il titolo al libro riguarda proprio la possibilità di "evadere" ma con la mente, non con il corpo; l'operazione che combina fra di loro i cinque sensi, come nella migliore tradizione del genere fantastico, non è spiegata ma solo accennata con minimi dettagli (si ricorderà che la trasformazione del dottor Jekyll di Stevenson viene resa possibile da un'impurità nel farmaco, e che l'operazione chiave del dottor Frankenstein viene descritta da Mary Shelley con le parole "qualcosa di così facile che non potreste immaginare"). Alla fine del libro Castel, il governatore, finisce per fare la stessa fine dei suoi pazienti: non in seguito a un'operazione ma per essere rimasto troppo tempo in contatto con le modifiche apportate anche all'ambiente dell'esperimento (le cosiddette "mimetizzazioni"). Nelle pagine finali, il giovane ufficiale Nevers, che si era rifiutato di assecondarlo, conclude la sua storia con questa affermazione:

(...) quanto alla sua enigmatica asserzione che non avrebbe più sentito dolore, ma avrebbe udito per sempre l'inizio del primo movimento della Sinfonia in mi minore di Brahms, vedo un'unica spiegazione possibile: che il governatore sia riuscito, o abbia tentato di farlo, a tramutare le sue sensazioni dolorose in sensazioni acustiche. Ma poiché nessun dolore si presenta sempre nella stessa forma, non sapremo mai che musica sentisse Castel. (...)
Adolfo Bioy Casares, "Piano di evasione", pag.143 (cap.52) ed. Bompiani 1974, traduzione Gianni Guadalupi (Plan de evasiòn, 1945)

qui per ascoltare Brahms, sinfonia n.4

 

venerdì 27 settembre 2019

Delio Tessa


 
(Frederick Childe Hassam, 1893)
 
(...) Dopo pranzo Vassilli si mette al piano. La sua Rita gli è vicina colla scusa di voltar le pagine. Il verticale cigola come un carretto. Bisogna ungergli il pedale. C'è chi crede che il sapone vada meglio dell’olio. Arriva una penna di cappone intinta nell’olio della macchina da cucire. Chopin riprende il suo pianto. Piange solo; s’è rifugiato quassù al quinto piano, in questa cameretta vicino a due innamorati, si è stretto a loro che possono comprenderlo ancora. Di fuori c’è il mondo nuovo agonistico e sportivo, estraneo, insensibile al pianto dell’uomo solo. Oggi tutto è in regime di masse; camionate di gitanti e torpedoni di dolenti! Anche le malattie si adeguano ai tempi. La romantica tisi dei musicisti, dei patrioti e dei poeti ha ceduto il posto al cancro degli industriali.
In silenzio, raccolti intorno al pianoforte, i cinque invitati sembrano un gruppetto di cospiratori. Il loro atteggiamento raccolto, dimesso e quasi arcigno, è antagonistico e di muta riprovazione degli sgargianti esibizionismi artistici moderni. Nessuno mi leva dalla testa che il gran pubblico accorre ai concerti degli assi della tastiera colla stessa mentalità colla quale si stipa negli stadi alle partite di calcio. A loro interessa il funambolo, la musica vien dopo, quando viene. Il concertista medio, l'esecutore attento, l’interprete diligente che presenta gli autori senza sopravalutarli ha finito il suo ciclo. Cambi mestiere. (...)
Delio Tessa, «Sì, cara» pag.72 da "Ore di città" a cura di Dante Isella, Scheiwiller 1984


 

lunedì 23 settembre 2019

Canta Schipa


CANTA SCHIPA  
(Delio Tessa)
...secondi posti: tre. Primi: cinque. Galleria.... «Rose nere». Come sarà? No, decido di no.
Più in là...
...sul mare luccica
l'astro d’argento...
...un altoparlante trasmette il programma Radio-pomeriggio. Sul marciapiede c'è gente ferma in ascolto. Dentro, nell'atrio del negozio ove la trasmissione si effettua, c'è folla.
Il canto non sembra venire da nessun punto in particolare. E' nell’aria. Chi è qui, ci vive in mezzo. Qualcuno intanto se ne va.
A questa nuova canzone...
...in te rapito al suon della tua voce...
...altra gente fa sosta, s’assiepa...
...lungamente sognai...
Facce estatiche!
Lungamente sognai... l’eco di queste parole è diffuso intorno, la melodia nostalgica che le anima ci tien qui, non ci lascia partire. Penso al canto delle sirene. La città non è forse un mare? Uno può, passando, fermarsi un istante e poi, quasi a forza, strapparsi all'incantamento e andar via ma se indugia è preso nel cerchio magico della musica, non parte più.
Il 13, il 21, il 35... otto tram e un autobus passano, s’intersecano su questa piazza. Gente, gente, auto, moto e gente, gente... Il mare in tumulto della città s’infrange al lido di questo marciapiede ove un gruppetto d’altra gente s’è dimenticata di sé e di tutto e, immobile, tace. Chi vuol passare deve farsi largo tra la piccola folla che cede lentamente e sembra stupirsi che qualcuno passi
ancora...
...torna caro ideal...
Chi passa, s’arresta. La malia del canto, quei visi assorti, quegli occhi assenti, l’hanno preso, irretito. «No, non torna più » Un cenno, un piccolo cenno di diniego « non torna più», par che dica costui.
...e ti senti nell’aria
nella luce dei fiori...
La servetta con quel bambino in collo troppo pesante per lei e che si torce nello sforzo continuo di portarlo, sorride... sorride a un che di sereno che per questo cielo bigio le appare... il pupo mi guarda attonito e mi presenta l'anello di un coso che ha in bocca, e che sta succhiando...
...torna caro ideal...
La canzone si spegne, dilegua, non é più. Il fattorino che ha fermato la bicicletta ai margini del marciapiede fa un gesto vago come per allontanare da sè i veli di un sogno. Si guarda in giro come per ritrovarsi e, finalmente, va. Rivedo i pensieri che ritornano, risento i crucci che ripesano.
Il grumo d’umanità che s’era formato si va sciogliendo e tutto è di nuovo some prima. Una voce in altoparlante annuncia:
« Tito Schipa ha cantato... ».

Delio Tessa, "Canta Schipa", da "Ore di città" a cura di Dante Isella, Scheiwiller 1984




qui per ascoltare Tito Schipa in "Ideale" di Francesco P. Tosti


giovedì 12 settembre 2019

L'ospite (Liliana Cavani)


 
L'ospite (1971) Regia di Liliana Cavani. Scritto da Liliana Cavani Fotografia di Giulio Albonico (bianco e nero). Musiche di Rossini e di altri autori non indicati. Interpreti: Lucia Bosè, Glauco Mauri, Peter Gonzales, Alvaro Piccardi, Lorenzo Piani, Giancarlo Caio, Giampiero Frondini, Alfio Galardi, Maddalena Gillia, Maria Luisa Salmaso. Durata: 1h30'

"L'ospite" è un film Rai diretto da Liliana Cavani nel 1971; nella filmografia della regista emiliana arriva dopo "Francesco d'Assisi" (1966), Galileo (1968), I Cannibali (1970), e precede "Milarepa" (1974) e "Il portiere di notte" (1974). Il tema è quello della malattia mentale e dei manicomi, tema molto d'attualità in quegli anni per via della riforma che prese il nome dallo psichiatra Franco Basaglia, l'apertura dei manicomi (fino a pochi anni prima impensabile) e la vita degli internati dopo la liberazione. Su questo contesto, però, Liliana Cavani costruisce un soggetto drammatico originale; il film non è quindi un documentario come si potrebbe pensare dalle sequenze iniziali, ma un vero film con attori e con una storia narrata, molto probabilmente presa dal vero.

 
La storia è quella di Anna (interpretata da Lucia Bosè), entrata giovanissima in manicomio e rimasta rinchiusa per vent'anni; non è pazza, aiuta gli altri pazienti, fa lavori nell'ospedale psichiatrico e riceve regolare retribuzione, e tra breve potrebbe essere dimessa e tornare a fare una vita normale. E' ancora molto bella, ha modi gentili ed educati, si prende cura amorevole di un giovane paziente che ha gravi difficoltà fisiche; tutti questi particolari attirano l'attenzione di uno scrittore (Glauco Mauri) che sta frequentando il manicomio per scrivere un saggio sulla condizione dei malati di mente. Quando viene dimessa dall'ospedale, Anna è contenta ma nel contempo è triste perché deve abbandonare il ragazzo malato (Peter Gonzales); viene accolta nella casa del fratello minore, sposato e con un figlio, ma sorgono subito contrasti. Anna vorrebbe fare una vita libera, da persona normale, ma il fratello e la cognata si preoccupano del suo possibile comportamento; infine, un vicino di casa (sposato e amico dei suoi parenti) le mette le mani addosso e lei si ribella. La verità viene a galla, ma Anna non viene creduta e dalla situazione nascono altri problemi. A questo punto Anna esce di casa e non torna più.
Qui rientra nella narrazione lo scrittore, che ha seguito Anna nella casa del fratello e riesce finalmente a rimettere insieme la vita della giovane donna. Anna e il fratello, da bambini, erano rimasti orfani ed erano andati a vivere nella casa degli zii, in campagna. Aveva avuto una storia d'amore con un cugino, finita male; da qui i tentativi di suicidio e la depressione che l'avevano portata al manicomio. Oggi non sarebbe così, ma negli anni '50 e '60 bastava molto meno per finire in manicomio (si veda anche "Europa 51" di Roberto Rossellini, con Ingrid Bergman protagonista) e non uscirne più. Ed è infatti in quella casa di campagna, una casa molto grande e ricca, che verrà ritrovata Anna; lo scrittore, che ha intuito dove potesse essere, dice al fratello di Anna "spero di arrivare prima della polizia", ma così non sarà. Avvisati dal fratello, i poliziotti trovano Anna e la riportano di forza in manicomio.

 
A un'ora dall'inizio, cioè quando Anna entra da sola nella casa di campagna dove ha vissuto da bambina, Liliana Cavani inserisce una lunga sequenza fantastica: Anna ritrova uno spartito del "Pelleas et Melisande" di Debussy per canto e pianoforte, probabilmente qualcosa che le apparteneva. Ne nasce una sua fantasia, con se stessa nei panni di Mélisande (dai lunghi capelli) e il giovane malato del manicomio come Pélléas; vediamo la sequenza iniziale e l'incontro con Golaud, poi altre scene con Lucia Bosè nei panni della madre anziana e velata di Golaud, gli incontri con Pélléas. Queste sequenze sono alternate con le visite dello scrittore alla casa del fratello di Anna, dove un po' alla volta veniamo a sapere che cosa è successo; il fratello e la cognata hanno già deciso di scaricare Anna e di rimandarla in manicomio, se e quando verrà trovata. Nella sequenza finale, Anna è tornata accanto al letto del giovane malato.
Non si ascolta musica di Debussy, nel corso del film; si segue la narrazione di Maeterlinck (autore della versione in prosa di "Pelleas et Melisande") ma si ascolta invece altra musica. Curiosamente, è Rossini: dopo aver ritrovato lo spartito, Anna mette un disco sul grammofono e si ascolta Rossini, l'ouverture da Cenerentola.

 
Nei titoli di testa del film è scritto che le musiche del film sono di Gioacchino Rossini, ma è vero solo in parte. Si ascolta molta musica, ma l'elenco completo non è indicato da nessuna parte e devo andare un po' a memoria, cosa non facile. Provo a stilare un piccolo elenco: nei titoli di testa, musica da camera che potrebbe essere di Rossini oppure di Cherubini; le Danze slave di Dvorak (o forse le danze ungheresi di Brahms?), e qualcosa che sembra una variazione da "Ein Mädchen oder Weibchen" di Mozart (il Flauto Magico) forse di mano di Beethoven. Gli arrangiamenti di questi brani lasciano un po' sconcertati e non è facile capire al volo di cosa si tratta con sequenze così brevi; se qualcuno potesse correggere i miei errori ne sarei contento.

 
Nel film sono inserite anche delle canzoni: nella sequenza della spiaggia si ascolta un grande successo di pochi anni prima, "Venus" degli olandesi Shocking blue; "Banoyi" è cantata dalla sudafricana Miriam Makeba.
Il film è girato a Pistoia, le automobili sono targate Pisa; non viene indicato il luogo reale dove è stato girato il film, forse per rispetto nei riguardi degli ammalati. L'insieme fa pensare spesso a Mario Tobino, scrittore e psichiatra, e ai suoi libri (Le libere donne di Magliano, Per le antiche scale, e altri ancora), che venivano pubblicati in quegli stessi anni; il soggetto è però di Liliana Cavani, e di Tobino non si fa menzione nel film.


Si tratta di un bel film, ancora oggi, anche se con qualche difficoltà iniziale per lo spettatore; ma gli attori sono ottimi, in particolare Lucia Bosè (che ricorda ruoli simili di Alida Valli), e lo stile di regia asciutto e preciso è prezioso. Visto di recente su Raitre (alle tre di notte! per fortuna ho ancora il videoregistratore), va detto che la pellicola necessiterebbe di un restauro. In questo periodo restaurano anche cose che non ne avrebbero bisogno (Showgirls, Fantozzi, i Vanzina...), e io direi proprio che sarebbe il caso di prendersi cura dei film importanti, prima di passare ad altro.