venerdì 14 giugno 2019

Carmen Jones


Carmen Jones (1954) Regia di Otto Preminger. Tratto dall'opera "Carmen" di Georges Bizet e dal racconto di Prosper Merimée. Sceneggiatura di Harry Kleiner. Fotografia di Sam Leavitt (a colori) Musiche di Georges Bizet. Testi riadattati da Oscar Hammerstein. Titoli di testa di Saul Bass. Interpreti: Dorothy Dandridge, Harry Belafonte, Olga James (Cindy Lou), Pearl Bailey (Frankie), Diahann Carroll (Mynt), Joe Adams (Husky Miller), Brock Peters (sergente), Max Roach (batterista), Carmen de Lavallade (ballerina)
Voci nelle parti cantate: Marilyn Horne (Carmen), LeVern Hutcherson (Joe), Marvin Hayes (Husky Miller), Olga James (Cindy Lou), Pearl Bailey, Brock Peters, Bernice Peterson, Nick Stewart
Durata: 105'
 
"Carmen Jones" è stato un film di grande successo, una "modernizzazione" dell'opera di Georges Bizet con attori afroamericani. Di Bizet sono conservate le musiche, praticamente identiche all'originale, mentre libretto e ambientazione scenica sono molto differenti.
Andando con ordine, l'opera di Bizet è del 1875, su libretto di Henry Meilhac e Ludovic Halévy, ed è tratta da un racconto di Prosper Mérimée. Nella versione del 1954, tratta da un successo teatrale a Broadway, l'azione è spostata negli Usa al tempo della seconda guerra mondiale; Carmen lavora nella fabbrica di paracadute e don Josè è un giovane caporale che sta per iniziare una promettente carriera di aviatore, o almeno così spera. Il sergente, che non lo ha in simpatia, lo costringe a portare Carmen in prigione (una prigione molto distante dalla caserma/fabbrica, chissà perché) nonostante sia lì presente la fidanzata (non Micaela, ma Cindy Lou). Ciò che segue è molto simile all'opera di Bizet, almeno fino all'arrivo del terzo incomodo; date le premesse non può essere un torero, e quindi Escamillo diventa un pugile, una star del pugilato che risponde al nome di Husky Miller. Il finale sarà sempre tragico, anche perché Joe (cioè don Josè) è ricercato dalla polizia militare dopo l'aggressione al sergente, fatto non voluto ma che lo ha costretto alla clandestinità. Nel film non ci sono i contrabbandieri, sostituiti non da gangster come sarebbe stato facile immaginare ma da componenti del seguito del pugile.
 

Visto da oggi, l'interesse principale del film consiste nella voce di Marilyn Horne, che nel 1954 aveva meno di vent'anni, essendo nata nel 1934. La Horne doppia Dorothy Dandridge nelle parti cantate, mostrando una voce notevolissima ma molto lontana da quella di contralto rossiniano con cui diventerà famosa negli anni '60. Una scelta felice, quindi, che le cronache d'epoca raccontano nata per una serie di fortuite circostanze, una sostituzione dell'ultimo momento come accade spesso a teatro (la prescelta era Leontyne Price). La scelta di mantenere le musiche di Bizet, un'ottima scelta, portò alla decisione di doppiare il cast anche se molti degli attori erano cantanti (Harry Belafonte ebbe enorme successo in quegli anni con "Banana boat" e altre canzoni di successo, ma non era certo un tenore). Nel cast originale a Broadway erano protagonisti Wilhelmenia Fernandez e Damon Evans.
 

Meno bene va con le altre voci: Harry Belafonte è doppiato come don Josè dal tenore LeVern Hutcherson, la parte di Escamillo tocca al baritono Marvin Hayes che doppia l'attore Joe Adams. Due voci appena passabili, spesso in difficoltà nella parte. Canta con la sua voce la Micaela di Olga James, così come Pearl Bailey nel ruolo dell'amica di Carmen. Il quintetto "dei contrabbandieri" nel secondo atto dell'opera è quindi interpretato in voce da Marilyn Horne, Pearl Bailey, Brock Peters, Bernice Peterson, Nick Stewart. Su www.imdb.com è indicata un'altra cantante ("Margaret Lancaster, singing voice") ma non saprei dire a che punto del film si può ascoltare. Gli arrangiamenti sono di Herschel Gilbert, e il tutto proviene da un successo di Broadway, in teatro. L'aria di Carmen all'inizio dell'atto secondo passa a Pearl Bailey, cioè a Mercedes o a Frasquita ("Les tringles des sistres tintaient / avec un éclat mechanique / et sur cette étrange musique / les zingarellas se levaient"); i tamburi dei baschi evocati da Carmen nel testo originale si trasformano nella batteria di Max Roach.


Il libretto originale viene sostituito da testi scritti da Oscar Hammerstein, un paroliere molto conosciuto grazie ai musical. Direi che il risultato è buono: "L'amour est on oiseau rebelle" diventa "Love is a baby that grows up wild" , versione libera, ma molto meglio della versione italiana da teatro "è l'amore uno strano augello". "Toreador, en garde" si trasforma in "Stand up and fight / until you hear the bell", e anche questo ci può stare ("the bell" è ovviamente il suono che ferma i pugili alla fine di ogni ripresa). Quanto ai nomi, Lillas Pastia diventa Billy Pastor; don Josè diventa Joe, Micaela diventa Cindy Lou (l'attrice che la interpreta, Olga James, è davvero minuscola: o almeno così sembra di fianco ad Harry Belafonte), Escamillo diventa Husky Miller, Mercedes e Frasquita diventano Frankie (Pearl Bailey) e Mynt (Diahann Carroll). Solo Carmen conserva il suo nome, con l'aggiunta di un cognome inglese: Carmen Jones. Dancairo e Remendado non sono più contrabbandieri ma due manager al servizio del pugile; Zuniga e Morales sono riuniti nella figura del sergente.
 

Su "Carmen Jones" esistono molte notizie e molte recensioni positive; il regista Otto Preminger (europeo) è uno dei migliori di quegli anni e il film è ben recitato e ben diretto, con colori molto belli. L'operazione va quindi considerata pienamente riuscita, anche se a mio parere si tratta di un film molto invecchiato, che mi sembrava già vecchio negli anni '70, tranne che per la musica di Bizet.

 
"Carmen Jones" contiene anche una brevissima citazione di "Stormy Weather" (al minuto 40, con Pearl Bailey), omaggio affettuoso a un film importante che è stato il primo interpretato completamente da attori afroamericani, nel 1943.
Va anche segnalata la presenza del grande jazzista Max Roach, in un a solo di batteria che ha solo il difetto di essere molto breve - e questo è davvero un peccato.


 
(le immagini vengono tutte dal sito www.imdb.com )



sabato 8 giugno 2019

Chuang-tzu ( II )


 
La musica permette all'uomo di restare puro, sincero, e di ritrovare così il suo sentimento primitivo. Il rito ingiunge all’uomo di conformarsi ai canoni nelle parole, negli atti, nella fisionomia e nel comportamento. Ma se tutti vivessero soltanto secondo il rito e la musica, sarebbe il disordine. Se gli altri si correggono grazie alla virtù, è perché questa non li offende. Se li offende, si allontanano necessariamente dalla loro natura innata.
Zhuang-zi (Chuang-tzu), edizione Adelphi 1982, pagina 139 (traduzione Carlo Laurenti e Christine Leverd)



Gli incolti non capiscono la grande musica, ma canzoni come "Rompendo rami di salice" o "Fiore brillante" li fanno ridere fragorosamente. Così, le parole elevate non toccano il cuore dell’uomo comune. Le parole supreme non riescono a farsi udire: sono ostacolate dalle parole volgari. Non si può raggiungere la meta se si ha il vuoto sotto i talloni. In mezzo a un mondo che si perde, io solo cerco il vero cammino, ma come riuscirò a trovarlo? So che è impossibile. So che che se volessi costringerlo, questo mondo, commetterei un errore in più. Meglio lasciarlo quale è, senza cercare di stimolarlo, e viverci in mezzo senza crucciarmi.
Zhuang-zi (Chuang-tzu), edizione Adelphi 1982, pagina 112 (traduzione Carlo Laurenti e Christine Leverd)

Anche queste due pagine affascinano ma sono di non facile interpretazione, considerando anche che si tratta di metafore per parlare d'altro. Personalmente, al posto delle canzoni citate, difficili da reperire, metterei le canzoni del festival di Sanremo e gli ultimi successi, quelli più facili e commerciali (eccetera: evito di fare nomi...). Per il resto, viviamo in un'epoca lontana da quella di Chuang-tzu: per la precisione, un'epoca in cui c'è gente che dice che la terra è piatta parlando nello smartphone, eccetera. Da questo punto di vista, lo ammetto, mi sono rassegnato. Le parole di Chuang-tzu, anche nel Duemila, sono purtroppo ancora più che valide.

(Nelle immagini: Adolf Hengeler 1897; Arthur Hughes fine '800; Georges Barbier 1915 circa)

martedì 4 giugno 2019

Chuang-tzu ( I )

 
Il ministro Bei-men Cheng chiese al Sovrano Giallo: « Quando Vostra Maestà fece suonare la musica Xian-chi, all’aperto, vicino a Dong-ting, la prima parte mi fece paura, la seconda mi distese, la terza mi sconvolse, poi ci fu silenzio e fui invaso da un malessere ».
« Non siete lontano dal comprendere questa musica. L'ho composta per gli uomini. L'ho provata grazie al cielo; 1’ho diretta secondo il rito e la giustizia; l'ho fondata sulla purezza suprema. Una musica perfetta risponde alle aspirazioni degli uomini, è in armonia con il cielo; avanza secondo le cinque virtù, è l'espressione stessa della natura intera. Regolarizza le quattro stagioni e armonizza tutti gli esseri. Le quattro stagioni si succedono; tutti gli esseri perpetuano la vita, uno dopo l'altro. A un'epoca di progresso segue un'epoca di decadenza; dopo una brillante civiltà viene la soldataglia; limpidezza e opacità si succedono; oscurità e luce si armonizzano. Allo stesso modo, scorrono e si irradiano i suoni. Svegliano i serpenti addormentati durante l'inverno, che si rizzano sorpresi dai flutti dell’armonia e dai loro echi. I suoni non hanno né fine né principio; gli uni nascono, gli altri muoiono; gli uni si adagiano, gli altri si levano alti. Scorrono indefinitivamente e miracolosamente.


Per questo la mia musica vi ha fatto paura. L'ho fatta, poi, secondo l’armonia dell'Oscurità e della Luce e l’ho illuminata con i raggi del sole e della luna. I suoni della mia musica sono a volte brevi, a volte lunghi, a volte teneri, a volte duri. Fanno tutt'uno con il cambiamento e non rimangono in nessuno stato costante. Riempiono ora le valli, ora i baratri; chiudono tutte le fessure di un animo ben custodito. In una parola, adottano il ritmo degli esseri. Vaste e oscillanti sono le risonanze; alte e chiare sono le loro qualità. Così i mani e gli spiriti stanno nell'oscurità, così il sole e la luna, le stelle e le costellazioni proseguono nella loro corsa. Così la mia musica si ferma qualche volta alle cose finite e qualche volta riprende lo slancio per l'infinito. Rifletto su questo senza riuscire a comprenderlo; lo guardo senza vederlo, lo inseguo senza riuscire a raggiungerlo. Incurante, mi adagio a un incrocio di vuoto e, appoggiato a un’eleococca secca, canto. La mia visione è troppo limitata per vedere, la mia forza troppo indebolita per continuare; per questo non posso raggiungerlo. Riempito di vuoto, riesco a possedere un potere d’adattamento perfetto: è questo potere di adattamento che vi ha disteso.
 

Infine, feci emettere suoni molto attivi e li accordai con il Destino naturale del mondo. Questi suoni imitano confusamente i vivi che si diffondono dappertutto e sono come la musica della foresta che non ha materia. Si propagano e si manifestano senza sforzo; risuonano oscuri e silenziosi; si muovono fuori dallo spazio, riposano nella profondità oscura. Si può considerarli volta a volta come morti o come vivi, come frutti o come fiori. Camminano e scorrono, si disperdono e si spostano. Variano sempre. Se qualcuno ha ha un dubbio su questo, consulti un Santo. Santo è colui che coglie la propria vera natura e si conforma al proprio destino. Così, non espone il segreto delle sue cinque facoltà. E' dentro di lui che risiede la gioia del cielo. Nel silenzio conserva la sua gioia interiore. Il sovrano You Piao celebra questa musica: “Ad ascoltare, non se ne ode il suono, a guardare non se ne vede la forma; colma cielo e terra; abbraccia i sei poli dello spazio”. Poiché l'avete voluta sentire, ma non vi ha raggiunto, ne siete stato sconvolto.
La mia musica comincia con il timore che vi ha dato infelicità; continua nell'abbandono che vi ha suggerito docilità; finisce nello sconvolgimento dell'anima tutta intera che vi ha portato a uno stato di stupidità. Lo stato di stupidità provoca l'esperienza del Tao. Il Tao può sostenervi e accompagnarvi ovunque e sempre. »
Zhuang-zi (Chuang-tzu), edizione Adelphi 1982, pagina 126-127 (traduzione Carlo Laurenti e Christine Leverd)

Confesso che mi affascina ma non so bene cosa pensarne; per un ascolto musicale rimanderei a Mahler, Il canto della terra. ( Nelle note al testo si ricordano le cinque virtù, o i cinque elementi taoisti.)

(Nelle immagini; Cléo de Mérode; Thomas Wilmer Dewing 1890; Thomas Cooper Gootch 1895; Mizuno Hidekata, 1900 circa)

lunedì 27 maggio 2019

Jan Peerce


Jan Peerce (1904-1984), uno dei più grandi tenori del Novecento, nasce a New York nel 1904 come Jacob Pincus Perelmuth. Di religione ebraica, come Richard Tucker (erano parenti, cugini o cognati secondo i siti che ho consultato) è fortemente influenzato dai cantori delle sinagoghe, la cui vocalità è spesso molto vicina a quella dei cantanti d'opera: ne ho portato qui diversi esempi, parlando di "Cabaret" di Bob Fosse, ma basterà una breve ricerca su youtube per capire l'importanza e la bellezza di quei canti religiosi.
La carriera di Jan Peerce va dal 1932 al 1966 circa, senza un vero ritiro dalle scene; terrà infatti concerti fino al 1982. Canta prevalentemente in America, dove diventa uno dei preferiti di Arturo Toscanini che lo chiama spesso a collaborare con lui, forse anche per via del timbro di voce di Peerce, molto particolare, che ricorda Aureliano Pertile, l'altro grande "tenore di Toscanini" negli anni italiani. Come Pertile, anche Peerce è un metronomo infallibile: non sbaglia una nota e va sempre a tempo. Alle volte, come nella famosa registrazione di "Traviata", si ha quasi l'impressione che sia Peerce a dettare il tempo nei concertati e nei duetti. Con Toscanini, e con l'orchestra NBC, Peerce ci ha lasciato interpretazioni verdiane che non è affatto azzardato definire leggendarie: su tutte, l'ultimo atto del Rigoletto (purtroppo non l'incisione completa) con Leonard Warren, Zinka Milanov e Nan Merriman.
Secondo il sito www.imdb.com  , Jan Peerce conta otto-nove film e apparizioni tv tra il 1938 e il 1969. Si può inoltre ricordare che suo figlio, Larry Peerce, è un regista cinematografico con numerosi titoli realizzati, anche se quasi mai memorabili; nel 1969 l'ultima apparizione in video di Jan Peerce è proprio sotto la regia del figlio. Nel dettaglio, da www.imdb.com  :
- 1938 "Latin rhythm short", regia di Milton Schwarzwald, cortometraggio musicale dove Peerce canta due canzoni
- 1938 "Carnival show", regia di Milton Schwarzwald, cortometraggio musicale. Peerce è un venditore di hot dog e tenore, tra i musicisti jazz del Cotton Club
- 1939 "Gals and gallons", regia di Milton Schwarzwald, cortometraggio di 20 minuti dove Peerce interpreta se stesso
- 1947 "Carnegie Hall" (da noi "Sinfonie eterne") regia Eward G. Ulmer, dove Peerce interpreta se stesso (questo film è da tempo nell'archivio di questo blog)
- 1947 "Something in the wind" (da noi "Scritto sul vento"), regia di Irving Pichel, con Deanna Durbin, John Dall e Donald O'Connor; Peerce interpreta un poliziotto di nome Tony
- 1953 "Tonight we sing" (in Italia, "Parata di splendore"), regia di Mitchell Leisen; è una biografia dell'impresario e agente di grandi musicisti Sol Hurok, interpretato da David Wayne. Nel film ci sono Ezio Pinza, Roberta Peters, Isaac Stern, Tamara Toumanova che interpreta la Pavlova, e molti altri; Jan Peerce dà la voce nel canto all'attore Byron Palmer.
- 1953 "Opera vs jazz" un programma della tv americana
- 1956 "Producer's showcase" programma della tv americana; in una puntata Peerce canta "Vesti la giubba" dai Pagliacci di Leoncavallo
- 1959-1963-1966 "Toast of the town" , serie tv (Ed Sullivan) dove Peerce si esibisce in tre diverse puntate
- 1969 "Goodbye, Columbus" ("La ragazza di Tony" nella versione italiana), tratto da Philip Roth, regia Larry Peerce (figlio di Jan), protagonista Ali Mac Graw. Il personaggio affidato a Jan Peerce è lo zio Manny.

 

sabato 18 maggio 2019

Victoria & Abdul


 
Victoria and Abdul (2017) regia di Stephen Frears. Basato sul libro di Shrabani Basu. Sceneggiatura di Lee Hall. Fotografia di Danny Cohen. Interpreti: Judi Dench, Ali Fazal, Eddie Izzard, Tim Pigott Smith, Paul Higgins, Adeel Akhtar, Michael Gambon, Simon Callow, Olivia Williams, e molti altri. Durata: 1h40'

"Victoria & Abdul", film inglese del 2017 diretto da Stephen Frears, racconta la storia vera di un indiano di Agra che fu servitore (e poi segretario) della regina Vittoria; che a quel tempo aveva anche il titolo di imperatrice dell'India. L'indiano, di religione musulmana, si chiamava Mohamed Abdul Karim (1863-1909) e fu a corte dal 1892 al 1901. La regina lo teneva in gran conto, mentre suo figlio (il futuro Edoardo VII ) e i ministri lo vedevano come il fumo negli occhi. Alla morte della regina, Abdul fu prontamente rispedito in patria (ben ricompensato, va detto) e la corrispondenza con la regina fu distrutta personalmente da Edoardo VII. Di questa storia rimane solo il diario di Abdul, ritrovato soltanto pochi anni fa, nel 2010. Su questo diario, e sul libro che ne trasse lo scrittore Shraban Basu, si basa il film.
Il soggetto è quindi interessante, sulla sua realizzazione c'è però molto da dire e in rete sono ben evidenziate le differenze con la realtà; non essendomi mai interessato della cosa non saprei cosa dire in proposito, se non fosse per una scena in cui compare quello che dovrebbe essere Giacomo Puccini, a 40' dall'inizio del film, durante un viaggio a Firenze della regina Vittoria.

 
Si tratta davvero di un pessimo ritratto di Puccini, l'italiano caricaturale, grossolano (si potrebbe dire - chiedo venia - "un terrone") ben distante dall'eleganza del vero Puccini. Oltretutto, Puccini viene presentato come un cinquantenne o sessantenne: essendo nato nel 1858, all'epoca dei fatti doveva avere poco più di trent'anni. Ovviamente, l'italiano da barzelletta canta un'aria d'opera; e la stona in modo orribile, una stonatura del tutto incomprensibile per un qualsiasi musicista che abbia studiato il solfeggio, figuriamoci per un compositore come Puccini. Il pretesto è "Manon Lescaut", che racconta di due innamorati divisi dalla diversa condizione sociale: così si dice nel film, dimenticandosi del fatto che Manon è una prostituta, una mantenuta, quindi la regina poteva anche offendersi. "Manon" è il primo successo di Puccini, nel 1893; comunque si guardino le cose, all'epoca del viaggio a Firenze della regina Vittoria non era certo così famoso da esserle presentato, ma tutto è possibile anche se sarebbe bello poter controllare. Puccini stava appena cominciando a diventare famoso, e probabilmente era a Milano in quel periodo, oppure a Lucca. Ci stava comunque di prendersi qualche libertà narrativa, e la scena poteva essere interessante se ben costruita, magari con Puccini al pianoforte e non cantante, per di più in quel modo stonato e scomposto. I compositori (e i direttori d'orchestra) sanno sempre cantare; magari non hanno una bella voce ma sanno essere intonati e non storpiano di certo le loro arie come capita in questo film. Fa tristezza che oggi ci sia ancora chi ripete questi stereotipi. Chi ha costruito questa scena, per di più nel 2017, non può che essere definito un asino (con tutto il rispetto per gli asini). Questa grossolanità stupisce perché Frears in passato riuscì a costruire un credibile Settecento con "Le relazioni pericolose" nel 1988. Oltretutto, Puccini è interpretato da Simon Callow: un attore esperto e di lungo corso che negli anni '80 fu l'interprete di Schikaneder, librettista e impresario per Mozart oltre che primo interprete di Papageno nel "Flauto Magico" di Mozart, in "Amadeus" di Milos Forman. Questo ritratto di Puccini è così stonato e sbagliato da porre seri dubbi su tutto il film, e dopo un inizio tutto sommato piacevole mi sono trovato a chiedermi cosa mai stavo guardando.
Insomma, se questo pastrocchio intende essere Puccini, figuriamoci cosa sono diventati gli altri e che razza di credibilità può avere il film.
 
Si può far notare che, parlando di questo film, www.wikipedia.it sbaglia scrivendo che Puccini nel 1887 aveva 33 anni, perché Puccini nacque nel 1858. Inoltre, "Manon" è del 1893; e Abdul fu a corte dal 1892, non dal 1887. Quindi, l'incontro con Puccini era possibile, bastava farlo bene e sarebbe stata una bella scena sia pure con qualche libertà.
Dopo lo strazio perpetrato sulla Manon, la regina Vittoria (cioè Judi Dench) si fa convincere ad abbozzare un'aria da "HMS Pinafore" di Gilbert and Sullivan, accompagnata al pianoforte dal figlio Bertie, cioè il futuro re d'Inghilterra Edoardo VII.

Il film inizia con una didascalia che mette in guardia sulla vicinanza alla realtà di quello che stiamo per vedere; l'interprete della regina è Judi Dench, come sempre molto brava e qui anche molto divertita. Abdul è interpretato da Alì Fazal, con un garbo che sembra voler riprendere l'indiano stralunato di Peter Sellers in "Hollywood party" del 1968. L'altro attore indiano è Adeel Akhtar; il futuro re Edoardo, qui chiamato Bertie (il nome completo era Albert Edward) è affidato a Eddie Izzard.
"Victoria & Abdul" è comunque realizzato in modo professionale e tutto sommato gradevole: uno spettatore con poche pretese finirà con il divertirsi guardandolo, ma da questo soggetto si poteva e forse si doveva trarre qualcosa di più, magari anche in chiave politica.





sabato 11 maggio 2019

Rapsodia (1954)


 
Rhapsody (1954) Regia Charles Vidor. Soggetto di Henry Handel Richardson. Sceneggiatura: Fay e Michael Kanin. Fotografia di Robert Planck. Musiche di Ciaikovskij, Rachmaninov, Sarasate, Mozart, e altri. Musiche per il film di Johnny Green. Interpreti: Elizabeth Taylor, Vittorio Gassmann, John Ericson, Louis Calhern, Barbara Bates, Michael Chekhov. Durata 115 minuti

"Rapsodia" è un termine musicale, preso in prestito dal greco antico, che dall'Ottocento sta a indicare, secondo la definizione data dalla Garzantina della Musica, "una composizione strumentale libera da qualsiasi schema prestabilito e parafrasante melodie popolari nazionali, con carattere virtuosistico o coloristico". L'esempio citato è quello di Liszt con le "Rapsodie ungheresi" o di Ravel con "Rapsodia spagnola".
"Rapsodia" è anche il titolo scelto per un film americano del 1954, che noi italiani ricordiamo più che altro per la presenza di Vittorio Gassmann, che ebbe un breve periodo hollywoodiano dove i produttori cercarono di farne un latin lover o qualcosa di simile; Gassmann, che a quei tempi era alle prese con Amleto e con Alfieri in teatro, cercò inutilmente di spiegare che lui era un'altra cosa come attore, ma si adeguò o cercò di adeguarsi meglio che poteva ("hai visto mai", sembra di sentirgli dire). Per me è un film francamente inguardabile, che oltretutto dura due ore, e che sembra il condensato dei peggiori luoghi comuni sui film hollywoodiani; probabilmente all'origine c'è qualche esperienza seria di musica. Forse il soggetto di partenza non era male ma poi ci si sono messi d'impegno i produttori di Hollywood per farlo diventare un fotoromanzo o un romanzetto rosa, come si usava in quegli anni. Il riassunto di ciò che vi succede lo lascio quindi a wikipedia, rimarcando soltanto l'assenza di riferimenti al ruolo fondamentale del padre di lei:
Louise è la figlia di un ricco industriale americano e decide di andare a Zurigo per essere vicina al suo amore Paul, un violinista che studia in Svizzera. Ma dopo un concerto si scoprirà che Paul tiene alla sua carriera più che all'amore; Louise quindi si ammala e viene consolata da James, che la corteggia. Nel frattempo Paul effettua un tour nelle maggiori capitali europee e sudamericane, ottenendo successo e diventando famosissimo; al termine della tournée, a Parigi, Paul rivede James, che gli comunica di essersi sposato con Louise. James è diventato un alcoolizzato perché ha scoperto che la moglie in realtà ama ancora Paul; quest'ultimo e Louise si incontrano all'aeroporto e Paul dice alla donna di amarla ancora ma di non volere, per averla, rovinare la vita a James. La donna si reca quindi con il marito a Zurigo, per fargli riprendere gli studi di pianoforte che aveva interrotto dopo il matrimonio, e in breve tempo James diventa un musicista virtuoso e smette di bere. Poco prima dell'esibizione che dovrebbe consacrare il talento di James, Louise lo lascia: ormai è autonomo, ha talento e non deve più affidarsi alla moglie per avere sostegno e lei ha un appuntamento con Paul, con cui partirà il giorno dopo. Durante lo spettacolo, James trionfa e Louise capisce di amarlo: Paul, dopo averle augurato buona fortuna, parte da solo e lei va da James dopo l'esibizione, dichiarandogli il suo amore.
(riassunto da www.wikipedia.it)

 
Le musiche che si ascoltano sono: per Gassman il "Concerto per violino e orchestra" di Ciaikovskij, suonato da Michael Rabin come indicato nei titoli di coda, e per John Ericsson il "Concerto numero 2 per pianoforte e orchestra di Sergei Rachmaninov, suonato nientemeno che da Claudio Arrau. Inoltre, sempre per Gassman, c'è "Gypsy Airs" di Pablo de Sarasate, come improvvisazione suonata per gli amici al ristorante. Nel corso del film si ascoltano anche altre musiche, una sinfonia di Mozart durante le prove, qualche accenno al pianoforte, eccetera. Le musiche per il film sono di Johnny Green, ma è difficile tenerle a mente dopo Ciaikovskij... 


Alcune mie note sparse: 1) l'unica cosa che mi è davvero piaciuta è la canzone inglese "See how I'm jumping" cantata da Liz Taylor, al minuto 32 (qui su youtube)   2) Gassman non ha la sua voce, è doppiato da Emilio Cigoli   3) gran parte dell'azione si svolge al Conservatorio di Zurigo, con una bella sequenza panoramica della città all'arrivo di Liz Taylor nei primi minuti.  3) nel film, il direttore d'orchestra si chiama Streller, il violinista Paul Bronte e il pianista James Guest.  4) Louis Calhern intepreta il padre di Liz Taylor, una parte importante e ben recitata; nel cast anche Barbara Bates e Richard Hageman   5) nei titoli di coda apprendiamo che al pianoforte abbiamo ascoltato Claudio Arrau, e al violino Michael Rabin.
 
Vittorio Gassmann ci ha lasciato un ricordo di questo film nella sua autobiografia, " Un grande avvenire dietro le spalle", pubblicata all'inizio degli anni '80. E' un libro divertente e ricco di pagine interessanti che consiglio a tutti - sempre sperando che sia ancora reperibile, se fosse fuori catalogo sarebbe un peccato:
(...) A Los Angeles conobbi la mia prossima assegnazione, cominciai le prove per il film Rhapsody. Sulla carta non si presentava male: produzione di grandi mezzi, superbo score musicale, protagonista una delle beniamine del pubblico, Liz Taylor. Ciononostante, foschi presagi mi spinsero a chiedere udienza a Dore Schary. Volevo spiegargli chi ero: non il tradizionale latin lover che la Metro si impuntava a cercare in me, malgrado l'imbarazzante risultato di Sombrero. Io ero - dissi con una prosopopea che derivava dalla disperazione - io ero un attore teatrale drammatico, che aveva recitato Amleto e rifiutava le interviste rosa su Photo Play; io avevo un sorriso rado e introverso, me ne battevo le scatole dei columnists, io leggevo Proust, perdio! Schary mi lasciò squittire, aveva uno sguardo perplesso, non capiva letteralmente cosa volessi. Mi disse che era la mia occasione, che avrei suonato il concerto per violino e orchestra di Ciaikovskij, disputando la Taylor a un grande pianista interpretato da John Erikson. Sentii il muro, uscii con l’animo esulcerato e iniziai il mio improbabile duello col violino sotto la guida di un coach mentecatto. Per due mesi lottò contro le coriacee cartilagini del mio polso e delle mie falangi; mi faceva picchiare per ore una monetina da un quarto con un listello di legno; mi incastrava sulla spalla violini d'ogni dimensione, mi imbottiva gli orecchi con la colonna sonora realizzata da Isaac Raben. Unica consolazione, il pensiero del povero Erikson, un attore da western con delle manone possenti, ora costretto a fingere virtuosismi sulla tastiera del pianoforte.
Si passò alle riprese del riprovevole fumetto. Anni dopo, nella rubrica televisiva Il mattatore, avrei inserito una ricostruzione di quel che fu la mia via crucis di strumentista virtuoso. Partiva da un primissimo piano, in cui il mio viso e ciò che restava della mia anima fremevano sussultando al ritmo del Concerto di Ciajkovskij. Lentamente la camera si allontana, fino a un campo lungo, che rivela la situazione effettiva: le mie mani sono legate dietro la schiena; carponi sotto di me sulla sinistra un violinista nano insinua un braccio spropositato nell'incavo della mia ascella per eseguire gli svolazzi della diteggiatura; sospeso in alto con un’imbragatura di cuoio, un altro maestro manovra un archetto lungo tre metri, la cui punta entra in perfetta diagonale nel campo dell’inquadratura; dietro me, ottanta onorati professori d’orchestra suonano con rapimento, solo io leggo nel fondo dei loro occhi il veleno di un corporativo disprezzo.
Dissolvenza. John Erikson stilla sudore ispirato nell’onda sonora di Beethoven, picchia i moncherini sulla tastiera come un fabbro, i suoi ditoni da palmipede non beccano mai meno di tre tasti alla volta. Anche a lui ovazioni. Primo piano di Liz estasiata: per chi batterà il suo cuore? vincerà l’arpeggio o la cavata? Il regista Charles Vidor gli dia giù senza complimenti: stacco sul programma dei due prossimi concerti, spareggio fra Shéhérazade e il Chiaro di luna. E poi tutti a ballare in uno chalet svizzero, atmosfera neutrale e fonduta alla bourguignonne.
Le sofferenze provate in questo film (che beninteso a molti piacque, trovo ancora dei patiti che me lo ricordano con rimpianto) furono lenite da molte liberatorie risate che facevamo con la Taylor. (...)
(Vittorio Gassman, da "Un grande avvenire dietro le spalle", pagine 107-108 ed. Longanesi 1981)
 

 
(le immagini vengono dal sito www.imdb.com ; le ultime due sono ovviamente tratte dal "Brancaleone" di Mario Monicelli)

sabato 4 maggio 2019

Lascia ch'io pianga


« Bene, » sussurrò lei « fatemi riprendere fiato. No, no; aspettate. State pronto ad aprire la porta. » E la Contessa, in posa ispirata, fece sgorgare la sua bella voce in “Lascia ch'io pianga”; e quando fu giunta al punto giusto, avendo emesso i suoi lirici sospiri per la libertà, fece segno di spalancare la porta, e si manifestò alla vista del Principe, con occhi accesi, e l`incarnato alquanto ravvivato dall’esercizio del canto. Fu una grande entrata drammatica; e per l'alquanto malinconico recluso, poi, vederla fu come vedere il sole.
(Robert Louis Stevenson, "Il principe Otto", pagina 199 Oscar Mondadori 1983, versione a cura di Masolino d'Amico)




«Lascia ch'io pianga» è un'aria dall'opera di Haendel "Rinaldo" (1711). L'opera, in tre atti su testo di Giacomo Rossi liberamente tratto dalla "Gerusalemme liberata". Nel secondo atto, Almirena ("destinata sposa di Rinaldo", secondo la definizione del libretto originale) viene fatta prigioniera dal re Argante ("amante d'Armida", sempre secondo la definizione del libretto), e chiede di essere liberata. Il re Argante è molto gentile con lei, le chiede di non piangere ma Almirena risponde così:
Lascia ch'io pianga
mia cruda sorte
e che sospiri
la libertà. (...)
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La melodia, tra le più belle nella storia dell'opera, ha in realtà una lunga storia precedente alla messa in scena di Rinaldo. Haendel la inserisce già in un balletto scritto quand'era molto giovane, in Germania, una sarabanda inserita tra i balletti di "Almira regina di Castiglia - Il cambio della fortuna".  Il ventenne Haendel, giunto a Roma, riproporrà questa melodia nell'oratorio "Il trionfo del tempo e del disinganno" con questo testo, opera del cardinale Benedetto Pamphilj:
Lascia la spina
cogli la rosa
tu vai cercando
il tuo dolor (...)
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Lasciata Roma per Londra, il già affermato Haendel (ventiseienne) va sul sicuro con la sua prima opera per gli inglesi, appunto il "Rinaldo", e ripropone fra le altre cose anche la sua melodia portafortuna. A Londra, Haendel rimarrà per tutta la sua vita e diventerà il compositore di riferimento per gli inglesi - e anche uno scozzese come Stevenson non poteva non conoscere la sua musica.
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