Due
momenti notevoli del film, vere invenzioni di Bergman, sono
l’Ouverture e la pausa tra i due atti (due atti lunghissimi, più
di un’ora ciascuno: ma così è in Mozart).
Per
l’Ouverture, Bergman opera una scelta interessante ma un po’
azzardata: una serie di primi piani sul pubblico che assiste allo
spettacolo. E’ una sequenza di un centinaio di primi piani, cento
persone molto diverse le une dalle altre, che dura più di dieci
minuti. La maggior parte sono comparse o amici, ma ci sono anche
volti noti come Sven Nykvyst, grande direttore della fotografia, ed
Erland Josephson, attore tra i fedelissimi di Bergman, oltre che
Ingmar Bergman stesso (un brevissimo istante, quasi subliminale, nel
finale dell’ouverture); e ovviamente in mezzo ai ritratti del
pubblico vediamo anche due ritratti famosi di Mozart. Il gioco dei
primi piani verrà ripreso per tutto il film con un unico volto,
quello della bambina Nina Harte, nel corso dello spettacolo a segnare
i cambiamenti di scena.
Devo
dire che ho sempre trovato un po’ pesante la sequenza intera, anche
perché distrae dalla musica (l’Ouverture del Flauto Magico è un
capolavoro assoluto); inoltre, almeno un’inquadratura all’orchestra
sarebbe stata necessaria, dovuta. Nel film l’orchestra non si vede
mai, ed è un peccato.
Si
vede invece il parco esterno al teatro, e ne approfitto per mettere i
nomi delle locations, così come li ho trovati sul sito IMDB:
Filming
locations for Trollflöjten (1975):
Drottningholm
Castle Theater, Stockholms län, Sweden (exteriors)
Drottningholm,
Stockholms län, Sweden (establishing shots)
Filmhusateljéerna,
Filmhuset, Svenska Filminstitutet, Gärdet, Stockholm, Stockholms
län, Sweden (studio)
Royal
Park, Stockholms län, Sweden (Drottingholm Palace)Stockholm, Stockholms län, Sweden
Swedish Film Institute, Råsunda, Stockholms län, Sweden (interiors)
Drottningholm, vicinissimo a Stoccolma, non è un posto qualsiasi: vi si svolge da molti anni un bellissimo festival internazionale di musica, con Mozart sempre in primo piano.
Decisamente
divertente è la Pausa, l’intervallo fra i due atti. I sacerdoti di
Sarastro, che avevano l’ultima scena prima del sipario, si
riversano nelle quinte, sbadigliano, chiacchierano, passeggiano.
Pamina gioca a scacchi con un pensoso Tamino, una scena decisamente
più dolce ed affettuosa rispetto all’originale qui citato (“Il
Settimo Sigillo”, regia di Ingmar Bergman, anno 1958). La Regina
della Notte fuma tranquilla un sigaretta proprio sotto il cartello
bilingue “severamente vietato fumare”, Sarastro invece (molto più
serio) si studia lo spartito del Parsifal di Wagner. Accanto a lui,
uno dei demonietti di Monostato legge un fumetto: è così che sono
venuto a sapere che in svedese “Kalle Ankas” è il nome di
Paperino.
C’è
spazio anche per il drago, che avevamo visto in cattive condizioni
all’inizio del primo atto: per chi si fosse preoccupato, sta
benissimo e sembra di buon umore (era tutta una recita! mica può
morire così, un Drago).
Nell’opera
di Mozart ha notevole importanza, forse anche più del Flauto che dà
il titolo all’opera, un piccolo strumento che si chiama
“Glockenspiel”: è lo strumento magico di Papageno, che gli
permetterà di sconfiggere Monostato e di ottenere finalmente la sua
Papagena.
La
Garzantina lo descrive così:
Glockenspiel:
strumento idiofono a percussione costituito da una serie di piccole
lastre d'acciaio intonate in scala diatonica o cromatica (in tal caso
gli accidenti sono posti su una seconda fila come i tasti neri del
pianoforte): il suono è argentino e assai acuto. Ne esiste una
versione montata su un manico, adatta per suonatori di banda: il
supporto delle lamine è in tal caso a forma di lira donde il nome
lyra-glockenspiel. Il glockenspiel (in italiano «campanelli») entrò
in orchestra probabilmente con Händel (per l’oratorio “Saul”),
ed è stato largamente usato dall' '800 a oggi, sia come percussione
della musica d'arte sia come strumento didattico.
“Idiofono”
è una parola difficile, e domani me la sarò già dimenticata: ma
significa semplicemente che è tutto lo strumento che vibra e produce
il suono: campanelli, sonagli, piccole percussioni; anche lo
scacciapensieri (che si pizzica) è un idiofono.Di campanelli-glockenspiel ce ne sono di diversi tipi, Bergman ne recupera uno molto bello e gli dedica molte inquadrature. Come possiamo vedere da un primissimo piano, sul davanti c’è un disegno un po’ spinto: si direbbe settecentesco, d’epoca o ricostruito tale e quale.
Il
Flauto Magico, in orchestra, tutto sommato lo si sente poco e non ha
musica molto memorabile; può essere una piccola delusione al primo
ascolto ma Mozart ha scelto così, forse per evitare calchi troppo
evidenti del flauto indimenticabile che Gluck aveva messo in “Orfeo
ed Euridice”. Al mito di Orfeo ed Euridice, del resto, Bergman qui rende molto più che un omaggio durante la sequenza delle prove da affrontare per Tamino.
Tamino
riceve il flauto dalle forze del Male (le tre dame, la Regina della Notte),
ma ne farà buon uso. Il flauto, un flauto traverso di fattura molto
semplice, si vede bene in due scene: una nella quale il suo suono
incanta gli animali che lo vengono ad ascoltare, l’altra nel finale
quando aiuta i due innamorati a sconfiggere le terribili prove
d’iniziazione.
Nella
prima scena, l’episodio di Tamino che incanta gli animali è
realizzato con grandi pupazzi, o meglio costumi, travestimenti da
maschere di Carnevale abitati da mimi ed attori. L’operazione
anticipa un po’ i Muppets, ed è decisamente simpatica, molto
adatta ai bambini che nei Paesi nordici sono spesso i veri
destinatari di quest’opera di Mozart.
Ma
qui, in questa scena, è in ballo qualcosa di più antico e di più
profondo. E’ il mito di Orfeo, con richiami precisissimi
all’iconografia: Orfeo che incanta gli animali; Orfeo ed Euridice
agli inferi; la danza delle anime dannate. La discesa all’Ade, il
confronto con l’Aldilà, è uno dei grandi temi della nostra
storia: dal mito di Gilgamesh all’Iliade e all’Odissea, passando
per l’Alceste di Euripide (messa in musica da Gluck con grande
effetto e commozione), in una serie infinita della quale sia Mozart
che Bergman tengono gran conto. La musica è Mozart, la messa in
scena rimanda a Gluck e a Monteverdi, ed è ovviamente un richiamo
fortemente cercato sia da Mozart che dal suo librettista Schikaneder:
il regista svedese è stato molto fedele e non ci mostra niente che
non fosse già presente nell’opera originale.
Ed
è un peccato, a pensarci bene, che Bergman non ci abbia lasciato un
Orfeo, o magari un’Alceste: però nello stesso periodo è stato
girato “Il ballo delle ingrate”, un cortometraggio tratto da
Monteverdi, del quale ho già parlato qui.
L’altra
sequenza dove è protagonista il flauto, quella delle prove che
Tamino e Pamina superano insieme, è girata da Bergman con immagini
dantesche, anime dannate che sembrano prese dagli affreschi di Giotto
o di Luca Signorelli, o anche dalle incisioni di Gustave Doré: è un
viaggio agli inferi quello che i due innamorati affrontano, più che
una vera e propria scena di iniziazione. Ne usciranno indenni, felici
e festosi, ma intanto fuori infuriava la battaglia fra gli eserciti
del bene e del male. Che è molto breve in Mozart, e che Bergman gira
mostrando la Regina della Notte in abito da guerriera, che riesce
perfino a sedere sul trono di Sarastro; ma è solo l’illusione di
un istante.
La
scena finale della “battaglia” è forse l’unica scena di massa
e di guerra girata da Bergman, a parte la guerra accennata di lontano
in “Il silenzio”. Bergman se la cava piuttosto bene, anche con
pochi mezzi e girando in teatro riesce ad essere più convincente di
tanti kolossal visti di recente.
“Il
flauto magico” è un film di Bergman, e non un film-opera alla
Zeffirelli o simili.
Ne
è perfetto esempio la folgorante apparizione della Regina della
Notte, in contrasto con le immagini che siamo abituati ad associare
alla musica di Mozart: niente tuoni e fulmini ma l’avanzare deciso
di una donna velata di nero. Un momento di grandissimo cinema,
un’intuizione visiva che vale più di molte pagine di critica.
Niente, quindi, apparizione fra tuoni e fulmini, niente discese
dall’alto in stile deus ex machina (come sarebbe stato normale e
giusto) ma una donna velata in nero, vestita in nero, che appare fra
altre donne come lei vestite, che giunge dal fondo della scena, che
si avvicina a Tamino e gli stringe le mani. Anche “Sussurri e
grida” è contemporaneo a questo film, dello stesso periodo;
Bergman non va mai contro la musica di Mozart, ma porta alla luce
significati che prima erano nascosti. Queste meditazioni sulla morte
e sull’aldilà sono tra le cose più sconvolgenti di Bergman (penso
anche a “Fanny e Alexander”); e ricordo qui, andando a memoria,
una frase che Giorgio Strehler disse proprio a proposito di Mozart e
della sua musica: “camminare sul ciglio di un baratro ma con
accanto una guida che rende piacevole e sicura la camminata”. Una
definizione perfetta per tutto Mozart, ma soprattutto per “Il
flauto magico”.
E’
un’invenzione da antologia anche il finale, con il mago
Sarastro-Ulrik Cold che, dopo aver lasciato il trono, si riprende il
flauto, ha per un attimo la tentazione di tornarlo a suonare, ma poi
sorride, lo rimette via, e si allontana.
L’ultima
scena (non prevista in partitura) è però per Papageno e Papagena,
circondati da una torma di bambini festosi tutti uguali a loro, tanti
piccoli Papageni e Papagene. Sono quelli come Papageno che fanno
davvero andare avanti il mondo, sembra volerci dire Ingmar Bergman:
ed è un messaggio che a Mozart sarebbe sicuramente piaciuto.
(5-fine)
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