Puccini (1973) Regia
di Sandro Bolchi. Sceneggiatura di Dante Guardamagna.
Consulenza di Mario Labroca ed Enzo Siciliano. Scene e costumi di
Ezio Frigerio. Regia delle opere liriche: Beppe De Tomasi. Scene e
costumi: Carlo Tommasi, Franca Squarciapino. Girato quasi
interamente nei luoghi originali.
Cinque puntate di 65
minuti circa ciascuna.
Interpreti principali:
Alberto Lionello (Puccini), Ilaria Occhini (Elvira, moglie di
Puccini), Tino Carraro (Giulio Ricordi), Vincenzo De Toma (Luigi
Illica), Mario Maranzana (Giacosa),
Interpreti della quinta
puntata: Luciano Alberici (Tito Ricordi),
Renzo Palmer (Renato Simoni), Lino Savorani (Luigi Adami), Ingrid
Thulin (Sybil Seligman), Mauro Barbagli (barone Eisner, a Vienna),
Bernd Treusch e Cip Barcellini (giornalisti viennesi), Mario
Giorgetti e Sergio Masieri (amici di Puccini a Torre del Lago), Dino
Peretti (medico), Remo Varisco (dottor Ledoux), Antonio Fattorini
(Tonio, figlio di Puccini), Antonella Scattorin (Fosca, figlia di
Elvira), Giancarlo Dettori (Arturo Toscanini).
Cantanti: Tito Gobbi,
Gianfranco Cecchele, Gabriella Tucci, Boris Carmeli
5.
L’ultima puntata
comincia con le pesantissime ripercussioni della morte di Doria
Manfredi su Puccini e sulla sua famiglia. In particolare, è Elvira
la persona più colpita: a causa della sua gelosia ha fatto una
sfuriata a una ragazza che era invece innocente (oggi lo sappiamo con
certezza), e adesso a Torre del Lago tutti la ritengono responsabile
della morte di Doria. Di conseguenza, Puccini decide di lasciare per
qualche tempo la villa di Torre del Lago per trasferirsi a Viareggio.
La tragica morte di Doria Manfredi rimarrà una ferita difficile da
rimarginare.
A confortare almeno in
parte Puccini ci sono il suo lavoro e l’amicizia con Sybil
Seligman: i dialoghi che ascoltiamo qui e nella puntata precedente
sono probabilmente tratti dal carteggio fra lei e Puccini. Sul sito
www.theoperacritic.com
ho trovato un articolo del
2006 firmato da Helmut Krausser: Sybil era
moglie di un ricco banchiere californiano, è vissuta fra il 1868 e
il 1939, quindi più giovane di dieci anni rispetto a Puccini;
trascrisse per Puccini melodie americane e indiane (per “La
fanciulla del West”), e tradusse, sempre per Puccini, “Una
tragedia fiorentina” di Oscar Wilde, un progetto poi abbandonato
(verrà poi musicata da Zemlinsky). Sybil Seligman prese
effettivamente lezioni di canto da Tosti, come abbiamo visto nella
puntata precedente. Aveva due figli, nati nel 1892 e 1895; all’epoca
del primo incontro dovremmo essere nel 1908. Nel carteggio fra lei e
Puccini, durato molti anni, esistono ben settecento lettere; è più
che probabile che tutti i dialoghi del film siano tratti da queste
lettere. In particolare, va sottolineata una frase che Alberto
Lionello dice a Ingrid Thulin: “se la nostra amicizia è rimasta
solo un piccolo giardino, il merito è tutto suo, Sybil...”. E’
probabile che le cose siano andate proprio così, anche perché la
salute di Puccini in quegli anni non era delle migliori. Sul sito
“the opera critic” ho trovato anche una foto di Sybil: il nome
completo era Sybil Bennington, Seligman era il nome del marito.
La scena seguente è a
Vienna 1914, dove Puccini concede un’intervista; le risposte di
Puccini sono molto interessanti per gli appassionati di musica, e la
scena è molto ben recitata.
A Vienna Puccini riceve
una decorazione da Francesco Giuseppe, e siamo ormai alla vigilia
dell’entrata in guerra. Da qui nascono altri dissidi con Tito
Ricordi, che rimprovera Puccini per le sue ripetute dichiarazioni di
neutralità e per la decorazione viennese, che gli hanno causato
molta ostilità anche da parte di Toscanini. Puccini esprime la
convinzione che star fuori dalla guerra sia la cosa migliore, ed
esprime un parere molto negativo su D’Annunzio non solo come
interventista ma per tutta quanta la sua persona. Puccini spiega a
Tito Ricordi che la sua filosofia di vita è “farsi i fatti i
suoi”, “è possibile essere neutrali?”. Anche questi dialoghi
sono più che documentati, non c’è nulla di inventato ed è un
peccato che non siano citate le fonti originali della sceneggiatura
di Dante Guardamagna, davvero molto ben fatta e recitata in maniera
eccellente.
Nel 1914 (per noi italiani
sarà il 1915) inizia la Grande Guerra; anche il figlio di Puccini
parte volontario, e per sua fortuna tornerà sano e salvo. Il regista
Bolchi ci mostra la guerra con una sequenza di immagini d’epoca,
molto ben scelte.
Dal punto di vista
musicale, a Vienna avevano proposto a Puccini un’operetta, molto
ben pagata; il progetto non va in porto ma sfocerà comunque nella
Rondine. “La Rondine” non è un’operetta, ma un’opera vera e
propria. Il libretto è di Giuseppe Adami, che sarà anche uno degli
autori della Turandot; la prima della Rondine è del marzo 1917, a
Montecarlo, e viene pubblicata da Sonzogno, “per fare un dispetto a
Tito Ricordi” che era contrario. Il suo soggetto somiglia molto
alla storia della Traviata, ma senza tragedia finale e con molta
buona musica. Nel film di Bolchi quest’opera non c’è, se ne fa
appena menzione; ed è un peccato perché la si ascolta sempre
volentieri.
Il tempo di guerra, forse
anche per via dell’isolamento forzato a Torre del Lago, è per
Puccini un periodo di grande lavoro. Comporre musica gli permette di
non pensare troppo alle gravi preoccupazioni di quegli anni; il
risultato, oltre a “La Rondine”, sono tre opere brevi di un atto
ciascuna, riunite sotto il nome “Il Trittico”, che andrà in
scena al Metropolitan di New York nel dicembre 1918.
Le tre opere sono: “Il
tabarro”, “Suor Angelica” e “Gianni Schicchi”.
“Il tabarro” è una
storia tragica che si svolge su un barcone ormeggiato sulla Senna,
libretto di Giuseppe Adami tratto da un racconto del francese D.
Gold; la musica è molto bella e Puccini appare in gran forma. “Suor
Angelica” e “Gianni Schicchi” sono su libretto del fiorentino
Giovacchino Forzano, scrittore e uomo di teatro molto famoso in
quegli anni. Forzano nello sceneggiato di Bolchi non c’è, e anche
questo dispiace. “Gianni Schicchi” è un’opera buffa tratta da
un personaggio citato da Dante nella Divina Commedia, condannato
nella Firenze del 1200 per aver falsificato un testamento d’accordo
coi parenti del morto (che era ovviamente molto ricco). L’opera
assomiglia molto al “Falstaff” di Verdi, c’è molta bella
musica e ci si diverte. “Suor Angelica” è invece una storia
cupa, su una giovane costretta al monastero dopo aver avuto un figlio
fuori dal matrimonio, ambientata nel 1600.
Di queste tre opere, il
regista Bolchi ci mostra solo un frammento da “Gianni Schicchi”, con
Tito Gobbi truccato in un modo che ricorda molto gli sberleffi di
Dario Fo.
Siamo ormai negli anni
’20, il soggetto scelto da Puccini è “Turandot”, una favola
scritta dal veneziano Carlo Gozzi nel ‘700, d’ambiente cinese.
Questo soggetto, con lo stesso titolo, era già stato musicato pochi
anni prima da Ferruccio Busoni (prima rappresentazione nel 1917, a
Zurigo), un’opera molto bella e molto differente da quello che ne
trarrà Puccini; è comunque più che probabile che l’interesse per
Turandot nasca proprio dall’opera di Busoni.
I librettisti sono
Giuseppe Adami e Renato Simoni; Adami ha già scritto due opere per
Puccini, “La Rondine” e “Il tabarro”; Renato Simoni è invece
un personaggio molto importante in quegli anni, commediografo e
critico letterario tra i più letti e influenti. Adami e Simoni erano
entrambi veronesi, gli attori che li interpretano cercano di renderne
l’accento veneto; si tratta rispettivamente di Renzo Palmer (Renato
Simoni) e di Lino Savorani (Luigi Adami).
Renzo Palmer era un attore
molto popolare, interprete di molti sceneggiati televisivi,
doppiatore al cinema e nei cartoni animati, e lo si rivede sempre
volentieri. Di recente ho dovuto prendere atto che i cartoni animati
con la sua voce sono stati ridoppiati, e ancora mi chiedo il perché:
il leone Svicolone e Braccobaldo erano divertentissimi con quelle
voci, con quelle nuove molto meno. Un vero peccato, soprattutto per i
bambini delle nuove generazioni; anche l’orso Yoghi con la voce di
Francesco Mulè era molto più divertente – ma tutto questo con
Puccini ovviamente non c’entra, quindi chiudo la parentesi e
ritorno alla Turandot.
Ai suoi librettisti,
Puccini spiega che vuole inserire un personaggio nuovo nella fiaba
settecentesca di Carlo Gozzi, “la servetta che muore per amore”.
E’ un dettaglio che fa subito pensare a Doria Manfredi. “Basta
che non sia un personaggio che porta in un’altra storia” conclude
Simoni, e sia pure un po’ perplesso si mette al lavoro su quella
che sarà Liù, e che avrà forse la musica più bella di tutta
l’opera di Puccini.
Puccini è ormai molto
malato, è sempre più rauco, e stanco. Non ha più tempo né voglia
nemmeno per gli amici del club di Torre del Lago. In questa scena,
Bolchi inserisce alcuni frammento dell’Inno a Roma, scritto su
commissione nel 1919: in una lettera alla moglie Elvira, il suo
autore lo descrive così: «Ho finito l’Inno a Roma, una bella
porcheria; domani viene Sadun a copiarlo in bella e lo manderò. Sarà
quel che sarà.» In effetti, l’Inno a Roma appare modellato sulla
canzonaccia da ubriachi che fa da inno al suo club. E’ di questi
anni anche la nomina a senatore, non molto gradita da Puccini.
Da qui in avanti, la
malattia di Puccini si aggrava: è un tumore alla gola, probabilmente
causato dal troppo fumo. Puccini se ne rende conto e manda molte
lettere ad Adami e Simoni, sollecitandoli nel lavoro; anche in queste
scene, come in quasi tutto il film, i dialoghi che ascoltiamo sono
tratti dall’epistolario pucciniano. Alcune di queste lettere sono
quasi disperate, non tanto per le difficoltà incontrate quanto per
la preoccupazione di non riuscire a finire l’opera.
“Turandot” andrà in
scena nel 1926, due anni dopo la morte di Puccini; l’opera si
conclude con la morte di Liù, e verrà completata solo qualche anno
dopo da Franco Alfano, basandosi sul libretto di Adami e Simoni e su
alcuni appunti di Puccini. E’ la versione che si ascolta
normalmente nei teatri, ma non sappiamo cosa avrebbe veramente
scritto Puccini.
Curiosamente, il finale
dello sceneggiato di Bolchi è quasi identico a quello del film di
Gallone, con Elvira dai capelli grigi nel palco per la Turandot e con
l’episodio vero di Arturo Toscanini che, dopo la scena della morte
di Liù, depone la bacchetta e si rivolge verso il pubblico dicendo
“Qui termina l’opera, a causa della morte del Maestro”.
Il finale della puntata,
sui titoli di coda, è per questa volta in completo silenzio.
Negli inserti in teatro,
Tito Gobbi è Gianni Schicchi; Gianfranco Cecchele, Gabriella Tucci e
Boris Carmeli interpretano la Turandot.
(fine)
(fine)
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